Il Corpo

Creato il 23 luglio 2010 da Fabry2010

Il Corpo

Di Guglielmo Pispisa – Kai Zen G

Il corpo martoriato me lo ricordo alla sera, quando venne deposto. Senza più dolore, ormai, inerte. Una bisaccia vuota, un calzare dal cuoio rovinato. Non sembrava più ciò che era stato.
Non voglio memoria della giornata che precedette quel momento, ma sono condannata a conservarla. La bisaccia vuota è solo una povera cosa, priva di significato perché svuotata del suo contenuto, arresa alla volontà di chi ha disposto per essa.
Eppure quella cosa povera e vuota, deposta dalla croce innanzi a me, non provava più dolore né paura. Non soffriva, perché aveva abbandonato l’essenza umana. E non ricordo d’aver provato un desiderio più forte di quello; mai ho voluto niente più di ciò che chiesi allora: fa’ che non abbia paura, fa’ che non provi dolore.
Nulla invece venne risparmiato all’uomo. Perché uomo, così come egli stesso aveva accettato di essere. Eloi, lama sabactani, gridava. Mio Dio, perché mi hai abbandonato? Perché lo hai abbandonato? Ripetevamo noi. Come puoi averlo abbandonato, come puoi permettere che facciano questo al tuo figlio prediletto? Dio è grande nella misericordia, come pure nel mistero di ogni crudeltà compiuta in sua vece dalla natura e nel suo nome dagli uomini. Non potevo dunque capire da sola, se nemmeno il Cristo ci riusciva. Se anche lui aveva smarrito il senso nel dolore, cosa potevo fare io? Cosa potevo provare se non rabbia verso il mondo, verso gli uomini e verso quella silenziosa entità superiore, che si faceva avvertire solo mantenendosi assente?

Tutto ormai era compiuto nel silenzio e nella sera. Urla e calore, volti congestionati e sangue e schioccar di fruste erano passati, tutto era passato. Lui, noi, io stessa. Vinti, finiti, e dunque impossibili da ferire ancora. All’ora sesta un’oscurità innaturale aveva inghiottito i contorni delle cose; i lineamenti dei nostri volti, trasfigurati nella sofferenza, si erano annebbiati, e non ci riconoscevamo l’uno con l’altro.
Dopo la deposizione, lo issammo su un carretto, la sua carne era fredda, le palpebre chiuse a metà. Ci venne la frenesia di portarlo via più presto che potevamo. Molti ci spingevano; persino quelli che davanti ai centurioni e ai membri del Sinedrio ci avevano insultato e lo avevano dileggiato e profanato per tutta la giornata, ora si accalcavano pur di toccarlo un’ultima volta, lontani ormai gli occhi di chi poteva giudicarli. E noi gelosi del nostro dolore, chiusi in un orgoglio stupido e senza più motivo alcuno li allontanavamo, spingendo e tirando il carretto per farlo muovere più velocemente.
Da piccola facevo un gioco con i miei fratelli. Catturavamo dei topi e li legavamo a un carrettino, ricavato da un vecchio sgabello rotto, in modo da farli correre a pariglia. Appena lasciati liberi, quelli schizzavano in ogni direzione, impazziti dal terrore, calpestandosi gli uni con gli altri. Spesso si tiravano addosso il carretto e rimanevano intrappolati. Guardando noi altri, che scendevamo affannati dal Golgota presidiando da ogni lato il carro malandato e il suo grave, amatissimo carico, mi venne in mente quel gioco lontano. Ma oggi eravamo noi i topi impazziti, animali sciocchi senza più istinto, forze elementari senza direzione.
Lo portammo presso un sepolcro tagliato nella pietra, vicino alla casa di Giuseppe di Arimatea. Il corpo venne riposto in tutta fretta, senza che nessuno lo vegliasse o avesse il tempo di piangerlo. E fu per questo che il primo giorno della settimana mi recai nuovamente dove lo avevamo sepolto: per piangere. Per battermi il petto e urlare, per far sapere a tutti che io lo piangevo. Toccava a me, adesso, soffrire. A questa ancella inutile.
Arrivata al sepolcro, vidi che la pietra, posta davanti a esso per ostruirne l’accesso, era stata spostata. Un raggio di luce obliquo si insinuava nel ricovero, che appariva deserto. Entrai. I panni coi quali il corpo era stato avvolto giacevano in terra disordinati, il sudario invece era piegato e messo da parte.
«Perché cerchi fra i morti colui che è vivo?»
Mi voltai, atterrita, e vidi un giovane uomo con una veste candida, seduto su una sporgenza della pietra.
«Dov’è? Lo hai portato via tu?» riuscii a domandare tremante.
«Non aver paura,» rispose. «Il crocifisso non è più qui. La morte deve stare con la morte, ma la vita fa sempre ritorno alla vita.»
Non capivo il senso di quelle parole e cominciai a piangere, fino a che qualcun altro si affacciò all’entrata del sepolcro. La sua figura era incorniciata dalla luce esterna, ma il volto rimaneva in ombra.
«Cos’hai da piangere?» disse «Chi cerchi, donna?»
«Hanno portato via il mio Signore, non so dove l’abbiano messo. Se tu lo sai dimmelo, te ne prego, in modo che io possa andare da lui. In modo che le mie lacrime non vadano sprecate.»
Quello allora pronunciò il mio nome: «Maria.» E io compresi.
«Rabbuni,» dissi. «Maestro!» Mi gettai ai suoi piedi, che egli aveva ancora feriti dal supplizio della croce. La mia fronte, i miei occhi appoggiati sulla tenera carne straziata, le mie mani a stringere i lembi della sua veste.
«Non toccarmi, Maria,» disse. «Perché non sono ancora asceso al cospetto del Padre.»
«Come puoi essere tornato, Rabbi?»
E lui mi disse. Mi disse.
«L’uomo è immortale, Maria, come immortale è la sua anima. Mortale è soltanto il suo modo di intendere la vita. La sua perversione, il cedere terreno ogni giorno alle passioni più vili lo fanno decadere. La paura, che conduce all’ira, che infine lascia soltanto e sempre paura. Questa ha sette forme, sette potenze.
La prima è l’oscurità. Da essa originiamo e per questo non dovremmo temerla, eppure trascorriamo tutta l’esistenza a fuggire il buio, l’ignoto.
La seconda potenza è la bramosia, il desiderio. La bramosia ti dice: tu mi appartieni perché tu vuoi. Vuoi cose, vuoi persone, vuoi emozioni, e chi vuole è destinato a essere schiavo.
La terza potenza è l’ignoranza. Quelli che decidono senza sapere o permettono ad altri di decidere in loro vece perché non vogliono sapere, o ancora quelli che giudicano. Sempre e comunque quelli che giudicano, così come le altre prede dell’ignoranza, saranno mortali.
La quarta potenza è l’emozione della morte. L’ebbrezza e il timore, l’irresponsabilità e la reverenza di chi è consapevole della propria finitezza. Stai in piedi, uomo, guarda dritto davanti a te, donna, perché tu sei più grande di quanto credi.
La quinta potenza è il regno della carne. Le sensazioni terrene trattengono lo spirito. Il corpo è tuo amico quando non è il solo amico. Il piacere o il dolore che vengono dalla tua bocca, dalle mani, dal grembo sono vita, ma non sono tutta la vita. Se non lo tieni a mente ti consumeranno.
La sesta potenza è la stolta saggezza della carne. Chi fa esperienza del mondo terreno e cammina per decenni su questa terra conosce le passioni e i sentimenti di questa terra, cresce e invecchia su questa terra, e arrivato alla fine crede di sapere tutto quello che c’è. Ma in verità è come la capretta che conosce solo lo spazio delimitato dal recinto e il pascolo dove si nutre e il percorso dall’uno all’altro.
La settima potenza è la sapienza stizzosa. La presunzione e superbia di quelli che sanno o intuiscono, ma invece di condividere la conoscenza si compiacciono di loro stessi, sentendosi superiori e disprezzando chi non sa. E usano quella conoscenza per trarre vantaggio personale e potere e posizione, dimostrando così che la loro sapienza non li ha resi migliori dell’ultimo degli ignoranti.
Le sette potenze hanno domandato alla mia anima: “Da dove vieni, assassina degli uomini? Dove sei incamminata, superatrice degli spazi?”
E l’anima mia rispose: “Ciò che mi lega è stato ucciso, ciò che mi circonda è stato messo da parte, la mia bramosia è annientata e la mia ignoranza è morta. In un mondo sono stata sciolta da un mondo, in una forma da una forma superiore, dalla catena dell’oblio, che è passeggera. D’ora in poi io raggiungerò, in silenzio, il riposo del tempo, del momento, dell’eone.”
Non è l’anima l’assassina dell’uomo, Maria, ma il corpo. La natura della materia si dissolve solo nelle proprie radici. L’uomo è immortale, ma non lo sa. Si ammala e muore solo perché insiste ad amare ciò che è ingannevole e che dunque lo inganna. Credete, invece, nella vostra grandezza, credete nell’immortalità e sappiate andare oltre lo sguardo terreno.»
E il mio Signore mi disse infine: «Maria, non ho emanato alcun precetto all’infuori di quanto dico ora, nessuna legge, perché non siate da essa costretti. Badate solo a che nessuno vi inganni dicendo “Vedete qui… Vedete là…” Perché il Figlio dell’uomo è dentro di voi. Seguitelo. Chi lo cerca lo trova. Va’ ora, va’ dagli altri miei fratelli e di’ loro che hai veduto il Signore risorto. E riportagli le mie parole, così come le hai udite. Ma non farti prendere dalla rabbia né dallo sconforto. Combatti con gentilezza e con pazienza, ma combatti sempre.»
Tante cose aveva detto il mio Maestro, e non ero sicura di averle capite tutte, ma quest’ultima mi risultava oscura. «Perché Rabbi,» gli chiesi allora «dovrebbe cogliermi lo sconforto?»
E lui  girò il capo verso di me, mi guardò un’ultima volta, con infinita dolcezza, e rispose: «Perché in verità ti dico, essi non ti crederanno. Nessuno di loro crederà che tu abbia sentito queste parole. E sarai messa da parte, e dimenticata.»
«Perché, allora, le hai dette a me, Rabbi?»
«Perché così è giusto.»

Andai dunque dai discepoli, come il Maestro mi aveva chiesto, e dissi loro ogni parola da lui pronunciata. Essi furono increduli. Il Salvatore ha forse parlato in segreto a una donna di dottrine e insegnamenti che ha taciuto a noi? Questo dissero, e anche quando si scusarono della loro irruenza, anche dopo avermi abbracciata e accolta presso di loro, misero da parte a poco a poco quanto avevo ascoltato dal Signore. Fino a dimenticarlo, fino a negarlo. E anche questo fu compiuto.
Ma io non dimentico. Io combatto, con gentilezza e con pazienza, ma combatto. Sempre.



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