Non capita spesso che uno studioso italiano di matrice hegeliano-marxista, autore anche di un saggio in difesa di Stalin, venga ampiamente recensito in termini elogiativi sul «Financial Times», espressione autorevole del capitalismo anglosassone.
Ma evidentemente Domenico Losurdo, docente di Filosofia all’Università di Urbino, gode di più credito all’estero che in Italia, almeno a giudicare dal lungo articolo dedicato alla traduzione inglese della sua Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005) da Peter Clarke, autore di saggi su Keynes e sulla storia britannica del Novecento. Il libro, con una vasta messe di citazioni, denuncia la vocazione elitaria del liberalismo classico, il cui impegno per l’affermazione dei diritti individuali rimase a lungo circoscritto nell’ambito della borghesia, escludendo le classi più umili e legittimando addirittura la schiavitù per gli appartenenti ai popoli di colore.Clarke accetta questa ricostruzione, che pure in alcuni aspetti appare unilaterale, per volgerla in senso positivo. Se grandi pensatori del passato (da John Locke a Jeremy Bentham, da David Hume a Thomas Jefferson) hanno ritenuto che vaste categorie d’individui non dovessero godere dei diritti fondamentali per cui si battevano, queste «clausole d’esclusione» , osserva Clarke, non possono tuttavia essere ritenute «intrinseche ai valori centrali» del liberalismo. Quindi il libro di
Losurdo può essere utile per definire una visione politica più aperta e inclusiva.D’altronde esistono molti tipi di liberalismo. E se, come ammette anche Losurdo, i liberali hanno saputo imparare dai loro avversari democratici e marxisti, fino a recepirne molte istanze, è perché la loro fiducia nello scambio delle idee, insieme alla consapevolezza di non possedere la verità assoluta, li predisponeva alla comprensione delle ragioni altrui. In fondo sta qui la vera grande forza del liberalismo, al di là delle umane incoerenze di tanti suoi esponenti.