Nella sua opera sfilano comparse di lusso come Bellow, Baudelaire, Proust, Shakespeare, Cervantes, Flaubert, Goethe, Dostoevskij, Pasolini, Moravia, Calvino, Flaiano, Simone Weil (citata a più riprese, e presente già a partire dall'epigrafe), Hannah Arendt e tanti altri, così tanti che sarebbe difficile menzionarli tutti. E poi i luminari del pensiero (da Cartesio a Hegel, da Platone a Lacan, da Socrate a Nietzsche, da Aristotele a Wittgenstein, da Freud a Sartre) e i maestri della pittura (Caravaggio, Munch, Bacon, Warhol). Ma anche Rino Gaetano, i “televisivi” Enrico Ghezzi (con il suo inseparabile Fuori orario) e Gene Gnocchi, e persino un geniale parallelismo tra gli Happy days di Fonzie e quelli del dramma teatrale di Samuel Beckett. Ognuno trova il suo posto, spiccando tra le parole della voce narrante, saggia eppure incosciente, matura eppure pervasa da uno spirito adolescenziale di tenero invaghimento.
L'autore ci conduce con padronanza nei corridoi della mente, accompagnandoci attraverso le sue riflessioni sul corpo, sul piacere, sul desiderio, sull'essere donna pur non essendolo. Entra nell'universo porno soft e teorizza, spiega, commenta, divaga, insegue, incanta. La ricchezza di temi è un forziere traboccante di tesori: il bene e il male, la ricerca della verità, la televisione come strumento per indagini sociologiche (la tv «peggiora quelli che la guardano», dice Elefante, mentre Blondie li rende migliori, tanto che «dovrebbe essere assunta a Rai Educational», e ancora, riferendosi a lei, «Mi pare la sola cosa vera che si veda in tv»), l'editoria e certi suoi meccanismi, e la comunità che, nella sua grettezza, respinge ed emargina le pornostar bollandole come Hester Prynne in La lettera scarlatta. Primo fra tutti, comunque, il tema della dualità mente-corpo.
Lei stessa, Blondie, è doppia, moglie e madre da una parte (Barbara), un nome d'arte che si esibisce come spogliarellista dall'altra. Ma Blondie è per Elefante qualcosa di più, non soltanto espressione di alterità ma di molteplicità: un'eroina letteraria al pari di Madame Bovary, Anna Karenina, della proustiana Albertine, della Daisy de Il grande Gatsby o della Dulcinea di Don Chisciotte; Blondie può essere la Bocca di rosa di De André o la pipa di Magritte; Blondie è la Lola dell'Angelo azzurro o la Lulù del Vaso di Pandora, la Bella di giorno (anzi, la “Bella di notte”) o la Catherine di Jules e Jim, la Lolita di Kubrick o Marilyn Monroe; come per Totò, «la sua entrata in scena fa saltare le convenzioni», e surclassa Moana, esibizionista trasgressiva, nelle fantasie dell'autore, perché lei, Blondie, pallida e innocente, vince col suo contegno e il suo fascino da educanda. Blondie è uno scrigno di segreti, una salamandra, «un'icona della nudità», un ossimoro vivente («la contraddizione in reggiseno e mutandine”), “la grazia fatta persona”; ha acceso la lampadina della sua vita e così lui, anche se irretito dalla truffa degli 899, ha capito che la bellezza esiste, ritrovandosi a guardarla come Chaplin guardava la fioraia cieca in Luci della città («Io la vedo, ma lei non può vedermi»). Con Il cuore freddo di Blondie (Gaffi editore, 2013), Fabrizio Elefante ha scritto un'opera originale, colta, densissima. Si può leggere o studiare, a voi la scelta. Alla fine della lettura non potrete che domandarvi se sia davvero l'ossessione il motore del racconto. Oppure, molto semplicemente, l'amore.
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