Grace Kelly e Ray Milland in una scena di Dial M for Murder (1954)
Una buona sceneggiatura è tutto.
Se si dovesse poi disporre di un’ottima sceneggiatura – un eccellente testo teatrale, poniamo il caso, firmato da quell’autentico genio della drammaturgia che è stato Frederick Knott – si correrebbe perfino il rischio di mettere in scena la miglior commedia gialla che si sia mai vista sul grande schermo. Certo bisognerebbe cavar fuori dal cilindro una coppia d’attori del calibro di Ray Milland e Grace Kelly, e una regia sapiente, misurata, fedele al testo e al contempo velata di originalità.
Pochi – ma indispensabili – ingredienti, in fin dei conti, e “Il delitto perfetto” è servito.
Alfred Hitchcock realizzò la trasposizione cinematografica dell’omonimo dramma di Frederick Knott (il bel titolo originale, “Dial M for Murder”, allude al quartiere londinese di Maida Vale in cui si svolge la vicenda) nel 1953, a poco più di un anno dalla fortunata première britannica; la pellicola, girata pressoché interamente nel salotto “bene” di casa Wendice – mobili Chippendale, statuette Wedgwood e stampe di Rosa Bonheur, tanto per gradire! – nel rispetto delle regole aristoteliche di unità di luogo, tempo e azione e dell’origine teatrale dello script, ottenne subito un folgorante successo di cui non è difficile comprendere le ragioni.
In primo luogo l’estrema raffinatezza e ingegnosità dell’intreccio. “Dial M for Murder” coniuga gli elementi del giallo tradizionale – delitto, castigo e un’indagine che tiene col fiato sospeso pur essendo nota sin dall’inizio l’identità del colpevole… perché vi è pur sempre una falla, una crepa da individuare: l’errore che rende qualsiasi crimine, nella realtà o sulla carta, inevitabilmente imperfetto – con le cadenze della commedia brillante mettendo in scena un rompicapo che avvince e coinvolge lo spettatore dalle prime battute all’impagabile sorpresa finale. In secondo luogo, come si è accennato, il cast attoriale: se da un lato la futura Princesse Grace è a dir poco superba negli elegantissimi panni di Margot Wendice, vittima designata del diabolico marito ma soprattutto delle proprie debolezze, Ray Milland rasenta – e a tratti prepotentemente raggiunge – la perfezione nel prestare volto, voce e movenze a un villain coi controfiocchi, tra i più untuosi e convincenti che siano mai scaturiti dalla penna di un giallista. Ultimo ma non ultimo John Williams, attore caro a Sir Alfred (esordì nel 1947 ne “Il caso Paradine” e lo ritroveremo, nel 1955, in “Caccia al ladro”) che qui offre una caratterizzazione magistrale dell’ispettore capo Hubbard conferendo al pur riuscitissimo deus ex machina delineato da Knott un sovrappiù di ironica, sorniona autorevolezza: nel momento stesso in cui entra in scena abbiamo la certezza che, in un modo o nell’altro, la faccenda verrà risolta e l’ordine ristabilito.
Simona Tassara
- articolo originariamente pubblicato sul blog di Uno Studio in Giallo