La selva dei suicidi (incisione di Gustave Dorè)
La porta è aperta, se non volete combattere potete fuggire.
Seneca – De Providentia
Oggi in Italia il suicidio non costituisce reato, per l’ovvia considerazione che mors omnia solvit. Neanche il tentativo di suicidio costituisce reato, visto che per il giudice sarebbe difficile trovare un modo per punire qualcuno che era disposto addirittura a morire (in realtà vi sono delle eccezioni, per es. nei tentativi di suicidio in carcere…).
Sul suicidio però, non la si è sempre pensata così.
Ai tempi dell’antica Roma, all’inizio il suicidio non solo era tollerato ma, ritenendo che una simile scelta appartenesse alla sfera intima dell’individuo e ne fosse la forma di espressione più alta della sua libertà, almeno fra l’élite ricca e colta che si rifaceva allo stoicismo. Poi anche nell’Impero Romano, nel diritto, questi approcci alla materia suicidio, cambiarono radicalmente. Questo perché troppi romani accusati di reati punibili con la pena capitale e la confisca dei beni si uccidevano, confidando nel principio giuridico del mors omnia solvit, frodando in tal modo lo Stato. Così, allo scopo di evitare questi trucchi che permettevano agli eredi di prendere possesso dei beni, fu introdotta la norma che prevedeva la confisca dei beni di coloro che si uccidevano mentre erano sotto giudizio per un reato che comportava tale condanna.
Il suicidio è un delitto che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta,
poiché ella non può che cadere su gl’innocenti, o su un corpo freddo e insensibile.
Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764)
Sul suicidio fu una gran, innovativa (ora sembra ovvia ma ai quei tempi non era così scontata) voce quella di Sant’Agostino (354 – 430).
Nel IV secolo era nato il donatismo, un movimento religioso scismatico del cristianesimo che, in nome della purezza e del martirio aveva sostenuto la legittimità dei suicidi individuali e collettivi. Contemporaneamente i visigoti di Alarico avevano invaso Roma e nel 410 ci fu il loro terzo assedio, ricordato come “il sacco di Roma“, saccheggiando e stuprando le donne. In seguito a queste violenze, le donne stuprate cominciarono ad uccidersi per il disonore, seguendo anche la scia di quanto suggerito dai donatisti.
Agostino così intervenne a proposito dei donatisti, del saccheggio e di quello che stava succedendo a seguito delle violenze dei visigoti. Condannò la morte volontaria suggerita dai donatisti, basandosi sul quinto comandamento “non uccidere” e dichiarando che quindi il suicidio non era diverso dall’omicidio. A gran voce soprattutto, Agostino negò che lo stupro facesse perdere l’onore a una donna poiché la castità non era un bene fisico della persona ma una virtù spirituale. Andando tranquillamente contro persino una certa mentalità che lo legittimava, anzi esaltava, nel caso che qualche donna, avesse preferito morire piuttosto che perdere la sua purezza, davanti ad un imminente stupro (mi lancio dalla finestra e muoio martire piuttosto che lasciare mi violentino anche perché sennò la società mi guarderà e considererà con disonore). Analogamente Agostino condannò coloro che si toglievano la vita per non cadere nelle mani dei nemici (visigoti, vandali, unni).
Anche per Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) e, alla fine del XII secolo era mentalità condivisa, il suicidio non era lecito ed era un peccato molto più pericoloso dell’omicidio, poiché lasciava pochissimo tempo, a volte solo attimi, per pentirsi.
Inoltre, uccidendosi si faceva un torto alla società, rispetto a cui un soggetto ha delle responsabilità, in quanto ciascun uomo appartiene alla comunità, come una parte al tutto, considerandolo come un delitto contro lo Stato (come già scritto da Aristotele nell’Etica Nicomachea). Inoltre, secondo Tommaso, il suicidio è incompatibile con la legge naturale dell’autoconservazione per cui ogni essere ama se stesso, cioè ha la tendenza innata a conservare se stesso e a resistere a ciò che potrebbe distruggerlo. L’uomo può disporre di se stesso con il suo libero arbitrio per ciò che riguarda la sua vita presente, ma non per il passaggio da questa vita ad un’altra, che dipende dall’intervento di Dio. La vita è un dono di Dio e chi se la toglie pecca contro di Lui “come chi uccide uno schiavo pecca contro il suo padrone”.
Da qui in seguito, per molti secoli, i teologi ma soprattutto i giuristi, considerarono il suicidio un peccato grave e un delitto gravissimum.
Per alcuni il suicidio era giudicato più severamente persino dell’omicidio di un amico o familiare; la differenza era che “chi ammazza uno, può ucciderne solo il corpo ma non assolutamente l’anima, invece chi uccide se stesso perde certamente il corpo e la propria anima”. Detto in soldoni, il suicidio era un omicidio doppio, fisico e spirituale.
Le autorità religiose lo condannavano, ma soprattutto quelle civili lo punivano con pene severe, anzi, diciamo surreali, coloro che tentavano di togliersi la vita ma anche quelli che se la toglievano, riuscendoci. Punivano il cadavere.
Ciò accadde in Inghilterra, Germania, Spagna, Russia, in tutto il continente, ma anche nelle colonie americane, sia spagnole, francesi, inglesi. Così, ad esempio, in Inghilterra, fino alla fine del XII secolo, l’ufficiale incaricato delle indagini sulle morti sospette, il coroner, esaminava le salme e interrogava i testimoni. In ogni caso, sia che la persona fosse stata uccisa sia che si fosse uccida, ugualmente si apriva un procedimento penale contro chi aveva commesso il delitto che, per il suicida, coincideva con la vittima. Un processo post mortem.
Dai giudici, il suicida (morto) veniva generalmente condannato all’impiccagione, a morire una seconda volta, come scrisse in proposito nel 1721 Montesquieu ne le sue Lettere persiane.
Per l’Ordonnance criminel rimasta in vigore fino alla Rivoluzione del 1789, il suicidio era assimilato ad altri delitti capitali, come la lesa maestà; e sempre in Francia, ma nel periodo precedente e durante il Medioevo, se a togliersi la vita era un uomo, il suo cadavere veniva impiccato alla forca a testa in giù, per degradarlo, come i pipistrelli in riposo; la donna suicida invece veniva bruciata. Anche in Spagna nel XVI secolo i cadaveri dei suicidi venivano appesi alla forca, mentre in Germania era normale bruciarli.
Oltre a chi si toglieva la vita riuscendoci, le autorità civili processavano e condannavano chi aveva cercato di farlo senza riuscirci. Concordi tutti e ovunque a punire ma, sulla pena da dare (al suicida sopravvissuto) non vi era pieno consenso.
A Firenze a metà del Trecento chi commetteva questo reato era condannato ad una pena pecuniaria, a Ginevra, dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento, la punizione era la fustigazione seguita dall’esilio, in Svezia si veniva condannati a fustigazione, tortura, lavori forzati e detenzione a pane ed acqua, a volte anche alla pena di morte. Nel Massachusetts negli ultimi anni del Seicento, la sanzione era venti frustate più ammenda, in Russia secondo il codice varato nel 1716 da Pietro il Grande, i tentativi di suicidi dovevano essere puniti con la pena di morte, in Austria il codice penale di Giuseppe II, nel 1787 prevedeva che chi tentava di uccidersi fosse condannato alla detenzione finché non si fosse convinto che la preservazione della propria vita era un dovere verso Dio.
Bloody Ivy
to be continued
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Brani tratti da:
Del Suicidio, Immanuel Kant ———– Guareschi, Diario Clandestino 1943 – 1945 ———— Emile Durkheim, Il Suicidio