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Il deludente finale di Naruto e l’eredità lasciata dal manga di Masashi Kishimoto

Creato il 05 dicembre 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

naruto71naruto71Dopo settecento capitoli, milioni e milioni di copie vendute in tutto il mondo, la trasposizione animata tuttora in corso, nove film e ben quindici anni di pubblicazioni, la serie shonen manga è giunta al capolinea.
L’amarezza di veder finire qualcosa che ci ha accompagnati per tanto tempo c’è, e la nostalgia, diciamolo, all’inizio la fa da padrone. Ben presto, però, è il sollievo a scalciare e a farsi spazio nel deluso e stanco fandom.

Il finale scelto dall’autore altro non è stato che la conferma del tracollo qualitativo dell’opera, sia dal punto di vista narrativo che grafico, ormai in atto già da qualche anno.
Incoerente da tempo immemore, infatti, il manga trascinava se stesso e i lettori in un infinito e snervante vortice di dialoghi ripetitivi, di disegni approssimativi, di capitoli costituiti da trame illogiche e forzate, pieni di cliché o, peggio, buchi narrativi.

Con queste premesse, dunque, in pochi avevano ancora delle vaghe speranze per una conclusione soddisfacente. Eppure, nonostante le già basse aspettative generali, Kishimoto è riuscito nella notevole impresa di peggiorare ancora di più la situazione.

L’autore ha esordito preannunciando che il finale sarebbe stato in due capitoli – di cui uno a colori – pubblicati contemporaneamente. Una scelta alquanto incomprensibile, ma legittima: un epilogo ha bisogno di novità, ha bisogno di stupire, di lasciare con qualcosa di incredibile.

Di novità, nostro malgrado, non ce n’erano molte, se non alcune idee inquietantemente dubbie. In primis, la nuova città: il Villaggio della Foglia che viene mostrato, non molti anni nel futuro, appare oramai come una megalopoli dallo skyline invidiabile. Un progresso tecnologico inspiegabile, quello di Konoha, che in una manciata di lustri dimentica le case di legno per gettarsi fra le braccia del cemento armato.

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Lo stesso Naruto, protagonista della storia ora adulto e divenuto Hokage, viene inquadrato per prima cosa in ufficio dinnanzi a un computer portatile. Sembra che le pergamene e il pennello a inchiostro siano solo un lontano ricordo, specie ora che persino il corpo insegnanti dell’accademia ninja si riduce a indossare strane protesi robotiche.

A questo punto la situazione comincia a delinearsi e l’amarezza, la tristezza, si fa sentire. Konoha non è più il villaggio che conoscevamo, quello con cui siamo cresciuti, e Kishimoto chiude le porte all’era Shogun – magari anche ai suoi valori – per accogliere l’avvento di una modernità che lascia il lettore boccheggiante e stralunato. Come se questi ultimi quindici anni non fossero stati che un effimero puntino in un disegno capitalistico molto più grande e molto più comune, molto più abbordabile.

Ma i nostri protagonisti, quelli con cui abbiamo condiviso questo lungo percorso, dove sono finiti? Abbiamo parlato di Naruto, che è il primo a comparire, e lo incontriamo subito nei panni di un Hokage soffocato dal lavoro – benché non ci sia nessuna battaglia da combattere – e quindi logicamente sommerso solo da scartoffie e burocrazia. Non proprio una fine degna di un eroe.
Naruto, poi, è un genitore assente, talmente tanto da rendere il figlio maggiore un teppista che cerca di attirare la sua attenzione in qualsiasi modo. È un genitore rigido, che sgrida il figlio senza mezzi termini, e con questo Kishimoto demolisce il personaggio di colpo, spazzando via l’ideale collettivo del protagonista in un soffio.

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Quanti fan della serie avrebbero immaginato un Naruto che, troppo occupato a firmare scartoffie, lascia indietro la propria famiglia? La propria tanto agognata famiglia? Quella che lui non ha mai avuto, che invidiava agli altri?

È un controsenso, un paradosso, un insulto alla genuinità del protagonista che quindici anni fa commuoveva coi suoi tristi occhi blu, colmi di solitudine.

E gli altri compagni di vita?
Certo, c’è Sasuke, come dimenticare. Dopo quindici anni Sasuke Uchiha finalmente è tornato a casa e si è finalmente redento dopo un ennesimo viaggio per il mondo. Sembra abbia compreso i suoi sbagli e voglia prendere scelte auspicabilmente più giuste, rimanendo quindi fedele a Konoha.
Dopotutto anche lui, come Naruto, era un orfano solo, chiuso in se stesso, schiacciato dalla solitudine, dal senso di colpa e dalla sete di vendetta per quello che Itachi, il suo amato fratello maggiore, aveva fatto al suo clan.

Per questi e altri motivi, dunque, da una persona con un passato così brusco, che dice di aver finalmente capito, chiunque si aspetterebbe che,

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una volta sposata Sakura e nata la loro figlioletta, prima erede del clan Uchiha dopo tanto sangue versato, egli vorrebbe star vicino alla sua famiglia.

E invece nemmeno lui lo fa. Viaggia, viaggia molto – lo vediamo camminare in una foresta armato di katana – e lascia a casa figlia e moglie, in un’ennesima, gigantesca dimostrazione del rinomato maschilismo di Kishimoto.

Nella serie, infatti, la continua discriminazione nei confronti dei personaggi femminili è disturbante, ma raggiunge il massimo della realizzazione con Sakura rappresentata solo nel fare le pulizie e niente più. Niente più studi della medicina, niente più eredità di Tsunade, forse niente carriera, niente di più che pulire la casa.
E, chiariamoci, il problema non sta nelle pulizie in sé o nella loro dignità come azione, ma nel fatto che al terzo protagonista della saga, l’unica donna peraltro, venga dedicata una sola minuscola scena con un fazzoletto in testa.
Eppure negli ultimi capitoli decisivi vediamo Sakura promettere a se stessa di non rimanere mai più indietro né a Naruto né tanto meno a Sasuke. Peccato che dei suoi sogni, della sua carriera e di tutto il resto non ci venga detto niente.

Un finale peggiore, insomma, sarebbe stato difficile prevederlo.

Perché dopo quindici anni di lotta, di lacrime, di sangue, di dolore, ma anche di gioia, amore, a

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micizia e riscoperta di sé e degli altri, non ci sarebbe stato niente di malvagio nel mostrarli tutti insieme, amici anche più di prima, ognuno a brillare nel proprio campo e coi propri sogni realizzati. Magari facendo anche qualcosa di utile, qualcosa che non sia firmare carte e vagabondare nelle foreste.

In ogni caso, tuttavia, nonostante il rammarico per un finale insoddisfacente – ma, come detto, negativamente prevedibile –, l’eredità di Naruto c’è e rimarrà. Sasuke e Naruto e tutti i loro amici e compagni hanno cresciuto più di una generazione di ragazzi con le loro avventure, insegnando in modo spicciolo ed efficace come molto spesso basti essere solo onesti per riuscire in qualcosa, anche con tutti i conseguenti sacrifici.
Ciò non toglie, però, che tutti – personaggi e lettori – avrebbero meritato un finale innegabilmente più dignitoso e, soprattutto, realmente conclusivo.

Kishimoto, infatti, non sembra ancora sazio dal cavalcar l’onda di popolarità e guadagno che è Naruto, e per questo è in cantiere un seguito, probabilmente una storyline basata sulle avventure dei figli dei personaggi: la nuova generazione ninja che ora deve mantenere la tanto sudata pace.

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Accanimento terapeutico? Molto probabile. Il trascinarsi fino all’estremo è una caratteristica che questo manga ci ha mostrato fin troppo spesso, ma è sempre bene attendere la pubblicazione del nuovo lavoro per un giudizio.
Se saremo fortunati, comunque, i nuovi protagonisti ci entusiasmeranno come è successo quindici anni fa e, chissà, forse verrà loro concessa una fine degna.


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