“Il deserto dei Tartari”, premio David di Donatello, ultima prova di Valerio Zurlini, è un’opera corale: mentre nel romanzo di Buzzati era la voce del tenente Drogo a raccontarci la ritualità della vita militare nella vana attesa di un attacco dei Tartari, nel film conosciamo l’irresistibile germogliare della consapevolezza e della disillusione in tutti i personaggi che, se nel romanzo rimanevano vaghi ed ambigui, sulla pellicola prendono dimensioni psicofisiche ben definite.
Statici e forzatamente concentrati sul loro compito, pronti al sacrificio e a mostrare tutto il coraggio e la forza di cui sono fatti. Diversamente da Buzzati, Zurlini colloca la vicenda in un tempo ed in uno spazio storicamente individuabili, come Buzzati, il regista ne coglie il senso di sospensione e di attesa in cui i soldati, gli uomini consumano la loro esistenza.
Fuori il deserto, che la fotografia pulita di Luciano Tovoli rende di una dolcezza visiva statica e “magica”, come certi scorci paesaggistici leonardeschi. Dentro gli uomini, nella fortezza scura e cupa da cui, inizialmente, il giovane sottotenente Giovanni Drogo (Jacques Perrin) vorrebbe andare via convinto che quello non possa essere il “suo” posto e che è finito lì per un errore: “Ma qui o altrove siamo tutti da qualche parte per sbaglio” lo ammonirà il Maggiore Medico Rovine (Jean-Louis Trintignant).
La staticità di questi uomini è rappresentata compiutamente dal comandante del forte: il Maggiore Matis affidato all’interpretazione di Giuliano Gemma. Si tratta di una delle prove più mature e convincenti dell’attore che qui esibisce tutto il suo talento: perfetto nel ruolo di militare fermo e deciso nell’esacerbato orgoglio di soldato che tenacemente attende il momento della gloria. Un ruolo diverso per Gemma che ci aveva abituato alle rocambolesche ed acrobatiche avventure del fascinoso Ringo: qui, con grande eleganza, si inserisce nel racconto con una maturità espressiva e una presenza scenica notevoli.
L’esperienza perturbante di questi uomini è permeata dalla noia e dalla spasmodica ricerca di un segno del nemico. La nebbia e il cavallo bianco si muovono all’orizzonte, le luci ambigue di un probabile bivacco che anno dopo anno sembrano avvicinarsi inesorabili, l’immobile e sterile ripetersi dei secondi che scorrono come i granelli di un pugno di sabbia sul palmo di una mano, sono simboli del dramma esistenziale: la certezza di annullarsi nella propria stessa esistenza.
La musica di Ennio Morricone scandisce il fluire dei sentimenti che restano inespressi, racchiusi in una impercettibile smorfia del viso, nell’intensità dello sguardo, nell’impeccabile gestualità rituale che la divisa militare richiede, nella sensibilità di attori calati in una vicenda umana e “spirituale” tanto lontana dagli stereotipi della quotidianità.
Giuliano Gemma esprime tutto questo con convinzione e partecipazione emotiva, dimostrando come la bravura di un attore non dipenda necessariamente dall’avere frequentato una scuola di recitazione. Come spesso ricordava la sua era un’arte maturata dall’osservazione e dalla pratica, elementi necessari alla costruzione di un attore, a patto, però, che alla base ci sia un sicuro talento. E Gemma di talento ne aveva, e tanto.
Written by Irene Gianeselli