Il Deserto dei Tartari: la Desolazione della Vita

Creato il 22 marzo 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Silvia Vantaggiato

Il deserto dei Tartari è un romanzo di Dino Buzzati pubblicato nel 1940. Il protagonista Giovanni Drogo, un tenente di prima nomina, viene inviato a prestare servizio presso un avamposto morto, il Forte Bastiani. Dopo aver salutato la madre, per il primo pezzo di strada viene accompagnato dall’amico Francesco Vescovi, fratello della sua promessa sposa. Il giovane Drogo resta solo ad affrontare il lungo cammino: «L’amarezza di lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la mamma, gli riempivano sì l’animo, ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno». Quando quel giorno di settembre Giovanni Drogo arriva alla fortezza appare chiaro che quello strano presentimento non era infondato: «Non era imponente, la Fortezza Bastiani, con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e bastioni, assolutamente nulla c’era che consolasse quella nudità, che ricordasse le dolci cose della vita. Eppure, come la sera prima dal fondo della gola, Drogo la guardava ipnotizzato e un inesplicabile orgasmo gli entrava nel cuore». Da questo momento la vita di Giovanni non segue più il filo sottile delle sue ambizioni ma sprofonda nella noia e nell’attesa perenne di qualcosa che lui stesso presagisce non arriverà mai.

Il Forte Bastiani era un posto lontano dagli uomini non solo geograficamente: aleggiava l’atmosfera pietrificata dell’attesa di un nemico che non sarà mai combattuto e di una gloria militare che non può essere conquistata e che si traduce nella temuta e sconfortante inerzia di una vita che non appare neppure vissuta. In questa dimensione di irrealtà anche l’attesa immobile viene affrontata con eroismo: l’intero romanzo è un’efficace e sottile metafora del non-senso della vita, della ricerca inappagata, dello scacco che ognuno gioca a se stesso. Giovanni Drogo ha la consapevolezza del vuoto che lo circonda e lo consuma ma è paralizzato, annichilito dal fascino vacuo e oscuro della fortezza, dall’attesa di una morte eroica, sospeso tra l’ansia di vivere una vita vera e il senso di un dovere inutile. Il ritmo della natura si insinua inutilmente nelle mura del forte ma chi ha perso ogni attrattiva per la vita neppure se ne accorge: «Moltissimi anni prima, nei giorni felici, era un giovanile flusso di calore e di forza, dai rami uscivano fasci di germogli. Poi la pianta era stata abbattuta. E adesso che è primavera, in ognuno dei suoi frammenti ancora si sveglia, infinitamente minore, un palpito di vita. Un tempo foglie e fiori; ora soltanto un vago ricordo, quel tanto per fare crac e poi basta fino all’anno venturo. Ecco il tempo in cui gli uomini della Fortezza cominciano ad avere curiosi pensieri che non hanno niente di militare. Le mura non sono più riparo ospitale ma danno l’impressione del carcere».

Quando Giovanni Drogo torna a casa, in licenza, si rende conto di quanto tempo è passato e di quante cose siano cambiate: neppure la madre aspetta il figlio che lontano dalla fortezza si sente solo e abbandonato. Finalmente arriva la consapevolezza del tempo trascorso senza frutto: «Il tempo correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce che è inutile. Tutto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai». Quando finalmente il nemico giunge ai piedi della Fortezza, Giovanni non ha più l’energia per affrontarlo, ormai condannato alla solitudine, la morte può essere la sua unica vittoria: «E dall’amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle cattiverie patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare». Il ritmo lento percorre i primi venti capitoli del libro per i quali la noia, che pervade la sequenza inutile e ripetitiva della vita dei soldati, è l’unica chiave di lettura. Il lettore è sorpreso a scoprire che con quell’incedere di fatti vuoti e sempre uguali passano venti anni e poi altri venti, fino a quando il protagonista a cinquantaquattro anni si ammala.

Il deserto dei Tartari è una raffinata metafora della vita dell’uomo che talvolta vive sospeso nell’attesa di un’eroica vittoria solo immaginata. La Fortezza Bastiani è una piccola società immobile, dominata dalla paura del cambiamento: proprio lì dove gli uomini erano addestrati al coraggio militare in realtà si impegnavano per non vivere, a sfuggire, come paralizzati, ai desideri e ai ritmi inesorabili della natura. Questo romanzo non è un’esaltazione del coraggio militare e del valore bellico: al contrario bastano l’attesa e il desiderio della guerra per sprofondare nell’abbrutimento e nella viltà. Giovanni Drogo con i suoi dubbi, i suoi desideri ha scelto di accomodarsi all’ostile tranquillità di una situazione che vuole percepire come momentanea; archetipo di un’umanità che cerca inutilmente di autoconservarsi ma che in realtà si annienta nella sua stessa debolezza.

Per Approfondire

Il regista Valerio Zurlini, nel 1976, ha tratto da Il deserto dei Tartari un film che vanta la magistrale interpretazione di Vittorio Gassman nel ruolo del colonnello Filimore e le musiche di Ennio Morricone. Zurlini non ha saputo rendere il senso metafisico della noia che Buzzati descrive nel romanzo e l’astrattismo in cui è calato il racconto viene tradito senza nessuna correttezza storica.


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