di Massimiliano Sardina
«Se ‘l corpo che amo xe servo e villano,
la bellezza che m’innamora xe libera e zentil», cantò ai raggi del sole.
Quasi un’autobiografia, Il desiderio e la ricerca del tutto – ora rieditato da Castelvecchi nell’ottima traduzione di Bruno Oddera – può a buon ragione considerarsi il capolavoro di Frederick Rolfe. Pochi ricordano Rolfe, soprattutto in Italia, e questa ristampa offre la ghiotta occasione di rispolverarne il talento e l’indiscutibile spessore letterario. Conosciuto anche come Baron Corvo il londinese Frederick Rolfe scontò in Italia, e più precisamente a Venezia, gli ultimi tormentati anni della sua vita. Visse di stenti, di alti e bassi, tentò coraggiosamente di sopravvivere con i magri e incerti proventi del mestiere di scrittore e morì solo, dimenticato, in miseria. È sepolto a Venezia nel cimitero di San Michele.
In The Desire and Pursuit of the Whole Rolfe veste i panni – prima pregiati e ben inamidati, poi sempre più logori e malconci – di Nicholas Crabbe, uno scrittore inglese residente a Venezia. Il nome Crabbe rimanda a “crabe” – granchio, metafora esplicitata a più riprese nel romanzo per descrivere una personalità “corazzata”, armata, diffidente e guardinga. Le chele, l’esoscheletro, le abilità anfibie e mimetiche, i movimenti ora guizzanti ora impacciati: la metamorfosi di Crabbe precede quella del Gregor Samsa di Kafka di ben sei anni (Rolfe scrisse Il desiderio e la ricerca del tutto nel 1909, ma il romanzo restò inedito fino al 1934). Il temperamento crostaceo di Crabbe non investe solo certi atteggiamenti isolati ma si manifesta in tutte le sue dinamiche relazionali. Sullo sfondo una Venezia tanto acquatica quanto terrena, piena di ricchi inglesi svenevolmente sedotti dalle vibranti cangianze lagunari e da astuti e scaltri veneziani sempre pronti a estorcere il massimo profitto dallo straniero di passaggio. Venezia non resta scenograficamente sullo sfondo come un capriccio posticcio ma, con la sue piene, i ristagni e gli sciabordii è parte saliente e connotante dell’impianto narrativo; Crabbe, come gareggiando con la consumata dimestichezza di un nativo, vi si muove agevolmente, spostandosi di canale in canale, di calle in calle, di rio in rio, dal labirinto dei vicoli alle centinaia di attracchi disseminati per tutta la laguna. La comunità inglese che soggiorna a Venezia tra la fine dell’800 e inizi ‘900 è davvero numerosa, e ha i suoi riti e i suoi luoghi di incontro, ma Crabbe è un inglese atipico che ama mantenersi in disparte in un curioso alternarsi di misantropia e protagonismo. È un aspirante veneziano, in un’accezione però estetica, fortemente simbolica. «[…] Le persone capaci di vedere Venezia sono rare; e coloro che sanno esprimerla con i colori possono essere contate sulle dita di una mano.».
Nella Venezia dipinta da Rolfe ritroviamo le cromie sfocate di Whistler, quelle dardeggianti di Monet e perfino i violenti chiaroscuri di un Piranesi. Nulla di più diverso dalla Venezia attuale e, più in generale, da quella che è venuta configurandosi all’indomani del primo conflitto bellico. E Rolfe, che proprio a Venezia morirà nel 1913, si sottrarrà alla guerra giusto per un soffio. Sospesa tra acqua e cielo, trasfigurata dal suo stesso riflesso, fissata nell’instabilità del suo perpetuo tremolio, la città dove il crabe–Crabbe combatte il suo dramma di scrittore e di amante è più un luogo dell’anima, un deserto interiore, che una landa fisica. Nella figura letteraria di Nicholas Crabbe – una figura ambigua, parziale, di un’irrisolutezza cocciuta e compiaciuta cui il lettore fatica a consegnare la sua simpatia – Rolfe inietta la sua stessa inabilità alla vita, all’amore, fors’anche al mestiere stesso di scrittore. Il desiderio e la ricerca del tutto è la storia di una riappropriazione, o meglio, del tentativo di una riappropriazione. Seguendo l’eco platonica Crabbe cerca la sua metà, il mancante, la magnifica presenza che scongiura la trista assenza. «La sola cosa che desiderasse era quel suo ideale, quell’Altra Metà di lui della quale sentiva la mancanza. Non sapeva se l’altra metà fosse una persona o una posizione. Aveva sempre pensato che si trattasse del sacerdozio, benché non fosse impreparato a constatare che si trattava di un amico.».
Stilato con proustiana prudenza Il desiderio e la ricerca del tutto è, per usare un’espressione di Pietro Citati, un romanzo “di una meravigliosa libertà, ricchezza e vastità di echi e profondità simbolica.”. Tentato dall’amore ellenico ma continuamente castigato dai rigori di una religiosità pervasiva e castrante, Crabbe sembra galleggiare in precario e luttuoso equilibrio alla stregua di una gondola. Nulla in lui si sbilancia o si pronuncia davvero. E Venezia (con il suo intrigo di isolotti, calli e canali) ben traduce quella condizione di obnubilato smarrimento che permea la sua personalità ibrida e anfibia. In Crabbe Rolfe riversa tutte le sue frustrazioni di scrittore; i predatori del “granchio” sono gli editori, razza maledetta, responsabili ora della sua fortuna e ora della sua rovina, dispensatori di piccole somme di denaro con le quali Crabbe a stento riesce a sopravvivere. Dal lusso alla povertà, dai velluti agli stracci: tra questi due poli oscilla la vita dello scrittore che coraggiosamente affida la propria sussistenza ai soli proventi legati all’opera letteraria. In più occasioni Crabbe è costretto a svendere la sua opera per onorare i debiti, e per sopravvivere, cosa forse ancora più umiliante, è costretto a scrivere libri che poi verranno firmati a belle lettere da altri. La sua letteratura, però, ne esce pura, indenne. La denuncia rolfiana sul complesso rapporto di sudditanza che lega gli autori agli editori si allarga anche ad altri aspetti inerenti al mestiere di scrittore, come si desume da questo passo: «[…] Noi, per i quali la letteratura è la sola stampella, consideriamo dei criminali voi, per i quali è un semplice bastone da passeggio. Contribuite a ridurre i compensi, regalando ai Barabba i quattro quinti del valore delle vostre opere. Non fosse altro che per una questione di moralità pubblica, a voi ricchi si dovrebbe vietare di scrivere, specie quando scrivete bene. Se fossi un dittatore, vi farei decapitare tutti quanti […]».
Il desiderio e la ricerca del tutto si muove costantemente su un doppio binario. Alla vicenda dello scrittore che lotta per affermare la propria opera si alterna quella dell’uomo in perenne sofferto conflitto con l’oggetto del proprio desiderio amoroso. Ed eccoci a Ermenegilda (leggi Ermenegildo) o Zilda (Zildo). Una creatura asessuata, – ma più che asessuata di una sessualità taciuta, omessa, censurata – un chimerico basilisco di bellezza, sorta di Tadzio manniano ibridato a una Maddalena tizianesca. Zildo è una Venere maschia, un idolo carnale di giovinezza e luce. Le splendide descrizioni del florido e turgido giovinetto valgono già da sole l’intero romanzo, e certe stucchevolezze Rolfe proprio non riesce a trattenerle: «[…] le superbe forme saturnine […] lo sguardo limpido come l’anima […] i fianchi snelli come il Narciso di Pompei […] i muscoli pettorali piatti e vigorosi quanto quelli dell’Eros di Prassitele […] le reni con quella guizzante fascia di muscoli ammirata (e si dice inventata) da Michelangelo […] il malinconico volto, simile a un fiore […] la fragranza della sua carne soda e splendente era come quella delle prime ore del mattino in un giardino di violacciocche e gelsomini […]» le descrizioni della bellezza di Zildo tornano a più riprese in tutto il romanzo sforando, per eccesso descrittivo, nell’astrazione. «Che mirabile creatura era! Quel viso serio e persuasivo sembrava non mascherare alcun pensiero; eppure non era sterile, non era vuoto… Era pieno e vivo. Aveva la perfezione e lo splendore e la purezza e la serenità di una pietra preziosa; aveva inoltre l’ulteriore qualità della tremenda e latente forza di un’anima non ancora svegliata.». E più in sintesi: «Senza dubbio la Natura era stata disturbata nel momento di generare questa creatura: nelle sue intenzioni era un robusto ragazzo ampio di torace, stretto di fianchi e senza il vitino di vespa, e allo stesso tempo era una ragazza per difetto.».
Zildo è talmente perfetto da stridere con ogni contingenza. Rolfe ne consegna la bellezza all’intangibile, e continuamente lo estrae dalle maglie del racconto, come a volerlo preservare. Ammantato d’immacolata perversione Zildo appartiene a una dimensione parallela, a un interposto piano meta-narrativo: è un archetipo d’amore, è il discepolo adolescente del filosofo ancor prestante, è l’Antinoo adrianeo, la pienezza e la felicità incarnate. In Zildo Rolfe concentra una perfezione assoluta, quasi fastidiosa. All’efebica venustà esteriore Zildo assomma anche quella interiore, altrettanto mirabile e struggente. Si fa schiavo del suo padrone e, fedele e devoto, lo ama incondizionatamente. Egli (perché di un lui si tratta) è l’altra metà, l’esaudizione del desiderio, quel che è trovato dopo la ricerca del tutto. Tra i due, però, nulla si compie e si consuma esplicitamente. Se Zildo è un fiore spalancato, stillante nettari inebrianti, Crabbe è gidianamente trincerato in una pia e prudente titubanza. Nel presepio veneziano Crabbe relega Zildo a distanza, in una camera chiusa a chiave, limitando i contatti ai soli spostamenti a bordo del pupparin. Zildo è l’anti-Caronte, il bel gondoliere con la sindrome dell’angelo custode. Sul pupparin, tipica imbarcazione veneziana, Crabbe e Zildo sono come naufraghi su un’isola deserta. L’acqua li circonda, li protegge e li separa dalle infamie della terraferma.
Incorniciato dalle mutevoli gamme dei ciano esalate da cielo e mare, stagliato contro l’orizzonte come un idolo-polena, la pelle zuccherata dalla salsedine, le chiome indorate dal sole, le ciglia commosse dal vento, Zildo è bello come un verso di Mallarmé – “… Il lucido e signorile ciuffo di vertigine / in fronte invisibile / scintilla / poi ombreggia / una statura graziosa tenebrosa in piedi / nel suo contorcimento di sirena / il tempo / di oltraggiare / con impazienti squame ultime biforcute…” – e talmente perfetto da vanificare il canone policleteo. E i celebri versi del grande poeta simbolista sembrano riaffiorare in questo passo: «[…] Mentre tornava indietro sempre strisciando, un tenue, timido zefiro della notte, sospirando, sollevò e aprì a ventaglio lo splendore del chiaro ciuffo, agitandoglielo in nobili ondulazioni sulla fronte. Nicholas provò l’impulso improvviso di soffiarci su, soltanto per il piacere sensuale di vederne di nuovo in movimento la bellezza… era a poca distanza dalle labbra.». I due, dopo alterne vicende, si salveranno a vicenda. Il desiderio e la ricerca del tutto può leggersi in ultima analisi come la storia di una doppia salvazione: se Crabbe raccoglie Zildo dalle macerie del terremoto di Messina (così infatti si apre il romanzo), a sua volta, sul finale, il salvato si farà salvatore.
Per una volta, alla fine, il diverso non muore, non paga con il sangue il bisogno di una purificazione altrui. Del tutto inaspettatamente nelle ultime pagine del romanzo la fusione simbiotica tra i due viene miracolosamente a compiersi: «Così il Desiderio e la ricerca del tutto fu coronato e premiato dall’Amore.». Nel lieto fine, come per ammenda, Zildo torna Zilda, il maschile si ritraveste da femminile, un camuffamento dichiaratamente raffazzonato ma in sintonia con le cautele del modus operandi rolfiano.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 21 – Dicembre 2014.
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