È il passo che rende il libro riuscito.
Riuscito nella sua capacità di comunicare, veicolo di un messaggio.
Magari è più d'uno.
Non voglio stare qui a spiegarvi cosa sia Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Impossibile farlo in circa ottocento parole (la media dei miei articoli).
Eppure, ci possiamo ragionare un pochetto su, almeno su un paio di parti.
Pubblicato per la prima volta nel 1953 su Playboy, in tre parti per tre numeri della rivista: 3, 4 e 5. Nota di colore, è importante per capire quanto potesse essere travisata la fantascienza allora, quanto lo è ancora oggi, relegata a letteratura di serie B da una serie di pagliacci incapaci di ogni immaginazione.
Ecco, l'incapacità di immaginare è, più di ogni altra cosa, ciò che colpisce di Fahrenheit 451: quel molle lassismo che caratterizza, ormai, la vita sociale di gente incapace di fuggire alle proprie prigioni.
E, forse, prigione è termine poco adatto.
Perché, nella sua accezione pura, prigione indica sì limitazione, costrizione, ma presuppone in sé l'anelito alla libertà.
Nella distopia di Ray Bradbury, la prigione è totale: è la mente umana.
Inutile sottolineare quanto, leggendo Bradbury, sia urgente il bisogno di rendersi conto che no, non viviamo in una distopia che ha ammazzato la cultura, che ha stroncato il libero pensiero, inducendoci a pensare che le nostre vite sono le uniche vite possibili e che non abbiamo bisogno d'altro. Che il sistema che ci governa è il migliore possibile e che non ne esiste un altro...
Non è così, che vi sentite, no?
No...
Ebbene, la cena è il momento in cui Montag, che s'è da poco scoperto un rivoluzionario del pensiero per aver letto due righe in croce in vita sua, prova a declamare alla moglie e alle amiche una poesia.
Poesia che, oltre a non essere compresa, causa angoscia, quasi dolore fisico nelle menti ormai atrofizzate delle ospiti.
Essa è il simbolo di un regime che ormai ha vinto, ha schiacciato ogni forma di pensiero autonomo, tanto da far provare ai prigionieri volontari, segregatisi essi stessi dalla propria capacità di immaginare alternative, dolore nell'ascoltare un pensiero autonomo, che non sia stato irregimentato.
I roghi di libri sono colore, una manifestazione necessaria, uno spettacolo al pari delle partite di calcio. Servono a ricordarsi che si rischia grosso, a leggere dei libri. Ma il fatto è che il 99% della popolazione, i libri non li vuole leggere più, è nauseata da essi e nemmeno ne conosce le ragioni.
Analfabetismo funzionale, se vogliamo proprio cercare una definizione a questo orrendo stato di cose.
Ancora una volta, sentite insinuarsi lo spettro del reale?
D'altronde, se lo stato, attraverso la TV, dice che va tutto bene, perché preoccuparsi?
Ecco il punto: la schedatura, la videosorveglianza, la classificazione dell'individuo, l'alterare la storia passata a seconda del proprio punto di vista dominante.
Esci la sera a fare una passeggiata dopo la chiusura dei negozi e sei classificato come strambo, degno di finire nel mirino di un segugio come conclusione di una spettacolare caccia all'uomo destinata a un altro. Perché nessuno esce la sera. È vietato.
Ma vietato da chi? Perché?
La prigione, il malessere della nostra esistenza, è reso possibile solo ed esclusivamente da noi stessi, non da leggi scritte e segnate da qualche parte, fatte rispettare da fantocci addobbati da Militi del Fuoco.
E se suggestiva resta, in un futuro fantascientifico, la considerazione che ogni uomo sia anche i libri che ha letto, dato che il nostro cervello è nient'altro che un processore atto a immagazzinare dati e rielaborarli, e che rende la lettura atto di ribellione per eccellenza, mezzo per tramandare la nostra memoria, ancor più simbolico è quello spirito che Montag possiede prima ancora di essere iniziato alla lettura, dopo aver conosciuto la strana vicina di casa.
Montag ha una sensibilità, che è palese dallo stile di scrittura con cui Bradbury ce lo presenta, che lo rende unico: la variante che rappresenta la minaccia di fallimento di ogni regime costituito. È quell'ansito di libertà che contamina la prigione. Ciò che porterà quest'ultima al collasso.
La storia è ciclica. Pare che l'uomo, instupidito da se stesso, debba, per progredire, distruggersi a fasi alterne. Distruzione seguita da ricostruzione, riscoperta di sé, per evitare di commettere gli stessi, stupidi errori di prima.
In noi c'è la libertà, nei libri la coscienza di coloro che ci hanno preceduto. Non sprechiamola, soprattutto ora che, là fuori, sembra tutto grigio, sepolcrale. Ci si aspetta soltanto, da un momento all'altro, di udire gli stormi di bombardieri.
A quel punto, noi saremo ciò che abbiamo letto, e anche e soprattutto noi stessi. Tesori che camminano. Conviene salvaguardarci.