Ultimamente ho rimuginato un po’ sul destino, o fato, chiamatelo come vi pare, sulle conseguenze delle nostre azioni, e sulle coincidenze. La nostra vita è decisa dal destino, e quindi qualsiasi cosa facciamo prima o poi veniamo riportati sui binari che siamo destinati a percorrere, oppure siamo effettivamente noi a decidere il corso degli eventi con le nostre azioni? Vi confesso che non sono mai riuscito a dare una risposta definitiva a questo quesito, e anche se le leggi dell’universo mi porterebbero così, d’istinto, a propendere per la prima ipotesi, la mia natura ribelle e l’esistenza delle coincidenze mi fanno sperare nella seconda. Penso spesso alle coincidenze e alle… conseguenze. Azione e reazione, causa ed effetto… una porta che si chiude e una che si apre, o che almeno si dischiude…
Le coincidenze scandiscono la nostra vita ogni giorno. A chi non capitano? Senza tirare in ballo per forza tragedie o situazioni alla “Final Destination”, mettiamo che un giorno entriate d’impulso in un bar vicinissimo a casa vostra ma nel quale non avete mai messo piede prima, e proprio lì incontraste un cugino ungherese che non sapevate di avere (è successo a un mio amico, giuro! Va beh, non è andata proprio così; diciamo che il cuginetto era venuto in Italia proprio per conoscerlo e girava con una sua foto in tasca, ma dai, non siate troppo fiscali). Oppure che per caso, girando l’angolo, vediate lì per terra scintillanti al sole nell’indifferenza generale proprio quelle 20 lire che vi mancano per comprarvi il gelato (questo è successo a me. Erano altri tempi, eh!). Ebbene, a quel punto non pensereste a come è strana la vita, e non vi rallegrereste della vostra fortuna (o sfiga, dipende dai punti di vista…)??Okay, seriamente, pensate a quella volta che d’impulso siete entrati in un negozio e avete incontrato un vecchio compagno di scuola che non vedevate da secoli. O magari quella volta che vi hanno trascinato a una festa a cui non volevate assolutamente andare e proprio lì avete conosciuto una persona fantastica che ora fa parte della vostra vita (come amico/a, marito/moglie e chi più ne ha…).Facendo un rapido bilancio della mia vita attuale: se avessi frequentato un’altra scuola, o vissuto in un altro quartiere, mi sarei fatto amici diversi da quelli che frequento da quarant’anni. E se non fossi stato assunto nell’azienda dove lavoro tuttora, non avrei mai conosciuto la mia compagna (e magari questo blog non esisterebbe, dato che sono le nostre conversazioni ad offrirmi molti spunti per i miei post). Eccetera eccetera… Dunque, almeno in termini affettivi, la mia vita sarebbe totalmente diversa.Questo per rimanere in ambiti che conosco, che posso “misurare”. Ma quante cose mi sono accadute (o non accadute) senza che io lo sapessi? Eh, sì, perché ci sono anche coincidenze di cui non ci si accorge, che sono destinate a rimanere occulte per sempre. In altre parole, quante volte ho d’impulso girato l’angolo e in questo modo NON ho incontrato qualcuno che non vedevo da secoli? Chiamatele occasioni mancate, se volete.La cosa essenziale è che noi non sapremo mai davvero quante coincidenze hanno segnato la nostra vita, né in che modo. Sono state un bene, sono state un male? Questo è l’aspetto della questione che più mi ossessiona, soprattutto da quando sono venuto a conoscenza della storia del “Signor” Hubert Pilčík.
Per capire in che contesto avvennero i fatti a lui imputati bisogna prima di tutto ricordare che, dopo la II Guerra Mondiale, la Cecoslovacchia era caduta nella sfera di influenza dell'Unione Sovietica. E quando il comunismo prese il potere e lo consolidò, e in particolare dopo il febbraio 1948, moltissimi cittadini, insoddisfatti del nuovo sistema politico, si ingegnarono per lasciare illegalmente il paese: si stima che furono circa 250,000 coloro che vi riuscirono. A quel tempo attraversare il confine non era difficile, perché non esisteva ancora la cortina di ferro, ovvero le famigerate tre recinzioni di filo spinato al confine con l'Austria e la Germania Ovest (quella centrale, elettrificata, fu sostituita da un sistema di sorveglianza elettronico solo dalla metà degli anni ‘60). Quindi, chi conosceva le strade meno battute e più sicure per raggiungere la frontiera si faceva pagare caro per portare gli emigranti fuori dai confini, e si assicurava lucrosi introiti grazie anche alla connivenza di agenti che si piazzavano in falsi punti di frontiera per ingannare quella povera gente. Antesignano dei moderni scafisti, anche Hubert Pilčík si offriva di aiutare gli emigranti a lasciare il paese, ma solo per poterli uccidere indisturbato ed impossessarsi così dei loro beni.
La sera del 6 marzo 1951 la capanna di un cacciatore chiamata “Lipovka”, nei pressi del piccolo villaggio di Nekmíř, prese fuoco: il giorno successivo da quel che rimaneva dell’edificio emersero i resti bruciati di un corpo con accanto alcuni effetti personali (la fibbia di metallo di un paio di scarpe, un fermacravatte di metallo e un paio di occhiali) e al collo una catenella con degli anelli rettangolari. Venne effettuata l’autopsia e si appurò che si trattava di un uomo dell'apparente età di 50-60 anni, alto circa 170-175 centimetri, che era stato cosparso di liquido infiammabile e dato alle fiamme probabilmente mentre era ancora vivo, dato che il suo sangue aveva bollito nelle arterie. Né gli arti né le interiora furono ritrovati, e le successive ricerche per stabilire l'identità del corpo furono infruttuose.Il 20 luglio dello stesso anno, mentre giocavano nella sabbia, dei bambini trovarono una gamba umana amputata in un bosco vicino a Senec. Questa località dista circa 10 km dal luogo in cui era stato recuperato il cadavere carbonizzato rimasto non identificato. Il corpo in avanzato stato di decomposizione di una donna di circa 30 anni, seminuda, con un bavaglio sulla bocca e una corda intorno al collo venne rinvenuto in una fossa poco profonda. Gli investigatori recuperarono alcuni capelli e due corone dentarie e fu proprio grazie a queste ultime che fu possibile identificare la vittima, perché si trattava di impianti realizzati su ordinazione. La vittima era Renata Balleyovà (altre fonti dicono che il cognome vero fosse Rayera, ma voglio fidarmi di Wikipedia). Si trattava di una fotografa di Pilsen, una donna elegante e vivace. Gli investigatori appurarono che la donna aveva intenzione di emigrare illegalmente in Germania con il padre Emanuel e la nipote di 12 anni: una parente era convinta che si trovassero effettivamente in Baviera e gli mostrò perfino una lettera della nipote, che però non aveva francobollo né timbro postale, pertanto non era una prova che effettivamente la bambina si trovasse dove sarebbe dovuta essere. La donna affermò anche che, avendo intenzione di raggiungere i suoi parenti all’estero, lei stessa si era recata a casa del “corriere” per prendere contatto. A Senec riconobbe l’abitazione in quella in cui vivevano Hubert Pilčík e sua moglie.
La controversa morte del criminale lasciò un alone di mistero sul caso. I suoi parenti non manifestarono alcun interesse per le sue spoglie e le donarono alla scienza: la sua testa è tuttora conservata in un barattolo di vetro, mentre presso il Police Museum di Praga è esposto l’aggeggio che era servito a segregare la nipote di Balleyovi (l'esposizione permanente include la storia delle indagini penali e dei più noti casi di omicidio cechi, tra cui il caso Pilčík). Per ulteriori info potete visitare il sito del museo, ma solo se conoscete il ceco: la versione in inglese non è disponibile…
La storia di Pilčík ispirò l’episodio The Beast (“Bestie”) della serie tv del 1975 “Thirty Cases of Major Zeman” (“30 případů majora Zemana”), una sorta di James Bond locale.Anche il drammaturgo spagnolo Carlos Be si ispirò a questo caso per la sua opera “La caja Pilčík”, che vinse un premio in Spagna e fu poi tradotta in ceco. Lo scrittore spiegò che il caso Pilčík gli aveva fornito il pretesto ideale per far riflettere il pubblico sulla torbida dualità che tutti abbiamo dentro, a volte inconsapevolmente; il caso Pilčík è una metafora della stessa normalità terrificante nella quale vivono gli individui in società esposte a situazioni estreme di guerra, violenza, fame e miseria.
Se vi state chiedendo come ho fatto a conoscere la storia di un killer celeberrimo in patria, ma misconosciuto all’estero, sappiate che è stata una coincidenza…Dovete sapere che il giorno della partenza per il mio recente viaggio in Giappone, il 15 Aprile 2012, era il centesimo anniversario dell’affondamento del Titanic (altra coincidenza!). Al mio rientro un amico me l’ha fatto notare e allora mi è venuto l’impulso irresistibile di fare qualche ricerca sui sopravvissuti al disastro… volevo sapere qualcosa di loro, se possibile, ovvero cos’avessero poi fatto delle proprie vite, sempre che fosse argomento di un minimo interesse. Non è che avessi molte speranze di trovare qualcosa, era un po’ come cercare un ago in un pagliaio… e invece, inspiegabilmente, per uno di quei casi fortuiti che ogni tanto accadono, sono incappato abbastanza in fretta del nome di Pilčík.
Sì, perché durante gli interrogatori emerse che Pilčík, era stato un marinaio in servizio sul Titanic il giorno che questo andò incontro al suo tragico destino… Più fortunato o più abile di molti altri, riuscì ad imbarcarsi su una scialuppa proprio pochi minuti prima che il transatlantico si inabissasse. Venne soccorso dall’equipaggio del Carpathia, venne assistito, rifocillato e pochi giorni dopo fu fatto sbarcare, sano e salvo nel porto di New York. Il Male era riuscito a sopravvivere. Il Male si era fatto beffe del destino. Il Male era pronto a colpire. Se egli fosse perito nelle acque gelide dell’oceano, molte cose sarebbero andate diversamente. Tutte quella gente non sarebbe stata rapita, torturata e uccisa. I loro familiari non avrebbero pianto la scomparsa dei propri cari. Ecco ancora… coincidenze e conseguenze…Ma ora un dubbio mi assale: è una coincidenza che io sia risalito alla storia di Pilčík, ora era destino che lo facessi e che poi ne parlassi sul mio blog…? Infine, è una coincidenza che Pilčík somigli in maniera così inquietante al mio ex datore di lavoro? (e vi giuro che è vero).