Ma poi, a giudicare dalle catene di Sant’Antonio che si sviluppano ad ogni disastro sui social network, buone solo per intralciare i soccorsi e intasare i centralini, viene spontaneo chiedersi se non sia la nostra civiltà del benessere ad invocare queste calamità. Tesi nella ricerca spasmodica di un comfort sempre maggiore, di fronte alle disgrazie ci sentiamo scossi da un fremito di vita, da un barlume di una perduta umanità che fa barcollare la nostra torre d’avorio. E così si sviluppa una gara a chi si dimostra più compartecipe del dolore, a chi fa rimbalzare meglio appelli arbitrari e mai richiesti di soccorsi. In piccolo, si ripete il protagonismo malcelato dei mass-media, sempre pronto a scavare nel fango, ma non per portare un aiuto materiale ai disastrati, quanto piuttosto per scovare l’edificante cronaca di un atto di eroismo o il pathos straziante di una tragedia esemplare.
Abbiamo bisogno delle piccole e grandi tragedie da raccontare, per urlare ed urlarci addosso che, nonostante tutto, siamo ancora umani, anche se poi contabilizziamo il gettito degli accessi al sito o dell’impennata dell’audience, grazie alla catastrofe. Ieri era il Tg1 che esultava per lo share susseguente al terremoto de L’Aquila, oggi è il direttore on-line della testata più importante dell’isola (nonché direttore del principale Tg regionale) a celebrare il record di accessi simultanei al suo sito, quando si andava delineando con chiarezza l’entità della catastrofe. A seguire, il direttore della stessa testata in versione tradizionale, coglieva la palla al balzo per cavalcare l’atavico senso di subalternità dei sardi in una polemica contro la matrigna Tv di stato, rea d’aver censurato una sua intervista, poi regolarmente andata in onda. E ora ritorniamo alle nostre miserie quotidiane, senza preoccuparci: una nuova catastrofe è già in arrivo, per ricordarci che siamo umani.