Chi ha stabilito che l’Iran non possiede il “diritto al nucleare”? Il problema è assai complicato dalla natura dei rapporti internazionali con quel Paese seguiti alla Rivoluzione del 1979. Tale questione va affrontata esaminando due aspetti: quello della necessità di produrre energia a fini civili e quello della pretesa a produrre uranio arricchito. Al problema si accompagna la retorica, spesso abusata dai vertici politici del regime, che fa presupporre scenari internazionali inquietanti.
Innanzitutto, è necessaria una premessa di ordine storico e sistemico. La politica internazionale si basa da almeno quattro secoli (le Paci di Westfalia del 1648 sono l’evento convenzionale) sostanzialmente su due principi: la formale eguaglianza degli Stati e l’affidamento delle decisioni ultime alla politica di potenza. Entrambi sono il riflesso della mancanza di un ente riconosciuto come superiore, il cosiddetto carattere anarchico del sistema. Anche il moderno diritto internazionale ha assimilato i due criteri nel sistema delle Nazioni Unite. Con la differenza che mentre il primo - fondandosi sul meccanismo per il quale ad ogni Stato corrisponde un voto all’interno dell’Assemblea Generale - è posto a tutela degli Paesi più insignificanti, il secondo - trovando riflesso speculare nella composizione e nel funzionamento del Consiglio di Sicurezza - consegna la potestà sulle decisioni più importanti alle grandi potenze. Per l’idea dell’eguale sovranità, non rilevano la dimensione geografica, l’entità demografica, la potenza politica, economica, militare del Paese. Per la politica di potenza invece sì.
Ora, come dicevo all’inizio, la strada dell’Iran verso l’energia nucleare va analizzata sotto un duplice profilo. L’Iran è un Paese che registra fortissimi tassi di crescita demografica (in trent’anni la popolazione è raddoppiata) ed è un Paese “giovane”: metà della popolazione (circa 70 milioni di persone) è sotto i 25 anni. Tuttavia, l’economia fatica ad assorbire del tutto la forte domanda di lavoro (disoccupazione al 14%) e la stessa economia presenta gravi deficienze collegate alla sua natura di rentier State, cioè di Stato che vive di una rendita che gli deriva dall’ingente possesso di risorse naturali (è il secondo produttore Opec di petrolio e il secondo possessore di gas naturale al mondo). Il punto centrale del problema è che le riserve naturali sono esauribili. Prima o poi esse finiranno e si porrà il problema di trovare fonti di energia alternative. A ciò si aggiunge il fatto che l’Iran non possiede la tecnologia adeguata per trasformare il petrolio grezzo in prodotto finito. Vi riesce solo in parte ed è costretta ad esportarlo all’estero per farlo raffinare, per poi farlo rientrare e reimmetterlo nel mercato interno. Questa operazione provoca un’emorragia di denaro pubblico che presuppone alti costi del prodotto finito. Tuttavia, il costo di un prodotto come la benzina è pari a circa 9-11 centesimi di dollaro per litro. E’ l’imposizione di un “prezzo politico” che serve al mantenimento della legittimazione del regime. Si calcola, però, che nel breve volgere di pochi anni il Paese non sarà più in grado di esportare una sola goccia di petrolio. Da qui l’enfasi sulla necessità di ricorrere all’energia nucleare.
L’ambiguità che ruota attorno alla questione sta nei rapporti che il regime intrattiene con la comunità internazionale. L’esistenza di un programma nucleare destinato a scopi militari è databile agli Anni 50, cioè all’inizio della Guerra Fredda, ai tempi dello Shah Reza Pahlavi. All’epoca, e fino alla Rivoluzione del 1979, l’Iran rappresentava il principale alleato militare degli Usa in Medio Oriente fra i Paesi musulmani. Ma, da quando il regime degli ayatollah si è insediato a Teheran sotto lo slogan “Né Ovest, né Est, solo Islam” lo scenario è cambiato. Il Paese è uscito martoriato dalla guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini ha posto il problema della sopravvivenza di un regime fino ad allora fondato sulla riunione in una sola figura dell’autorità politica e religiosa. Negli anni successivi la politica estera del Paese è stata improntata ad un ragionevole pragmatismo e la fase di ideologizzazione seguita alla Rivoluzione è in parte scemata. Era evidente la necessità di instaurare legami di cooperazione economica con i Paesi europei che, come il nostro, avevano e hanno bisogno del petrolio. L’ascesa al potere di Ahmadinejad (che in realtà, vista la configurazione istituzionale interna al regime, sembra più essere solo una pedina nelle mani di Khamenei) ha spinto verso una nuova fase di ideologizzazione. La retorica utilizzata dal Presidente ex-Pasdaran sulla distruzione dello Stato di Israele, il sostegno ai movimenti sciiti nella regione fra cui Hezbollah in Libano, lo spalleggiamento di Hamas: sono tutti fattori che provocano i timori dei Paesi occidentali. Inoltre, Ahmadinejad invoca spesso il ricordo del lasciapassare concesso dagli Usa negli Anni 50.
Si può comprendere, quindi, come la questione dell’energia nucleare sia fortemente invisa all’Occidente e si possono ragionevolmente capire le motivazioni che stanno dietro ai tentativi di bloccare il programma. Ma se da un lato l’Iran ha oggettivamente la necessità economica di accedevi a fini civili, dall’altro è la natura dell’ordine internazionale a conferire all’Iran il diritto di dotarsi di un programma per fini militari. Lo dice la politica di potenza, lo afferma l’assenza di un governo mondiale, lo conferma il possesso della bomba atomica da parte sia di altri Paesi extra-regionali (Stati Uniti in testa), sia regionali (Israele e Pakistan). Il punto di vista iraniano è ovvio: la comunità internazionale deve accettare la rivendicazione di un “diritto al nucleare”. D'altra parte è palese la sfida cui si trova davanti l’Occidente stesso: fermare le ambizioni di un Paese che mira da anni all’egemonia regionale in Medio Oriente. Dalla soluzione di questo dilemma dipenderanno non solo le relazioni fra l'Iran e l'Occidente ma la stabilità dell'intera regione mediorientale negli anni a venire.
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