Il diritto e la politica

Creato il 23 agosto 2013 da Bernardrieux @pierrebarilli1
Il diritto tende a stabilire delle regole nella convivenza umana. Prevede il divieto di alcuni comportamenti (diritto penale); stabilisce direttive per la soluzione delle controversie tra privati (diritto civile) e dà regole anche allo Stato (diritto costituzionale, diritto amministrativo). La caratteristica della norma, astrattamente formulata, è l’immutabilità. Essa si applica, non si adatta, al caso concreto. Il giudice non si chiede (o non dovrebbe chiedersi): “Quest’uomo ha ragione o torto?”,

ma: “Che cosa prevede la legge, per questo caso?” Perfino dinanzi all’imputato la domanda non è: “Che punizione merita, costui?”, ma: “Che cosa prevede la legge per questo reato?” La libertà del giudice si limita alla discrezionalità fra il minimo e il massimo della pena. Il diritto non tiene conto né dell’effetto di una data decisione sui singoli, né dell’interesse della collettività. Decine di telefilm americani ci hanno insegnato che la magistratura degli Stati Uniti è capace di lasciare libero un pericoloso assassino per un errore di procedura.
La politica ha parametri del tutto diversi. Il diritto tiene conto delle regole, la politica tiene conto dell’opportunità concreta. Quando segue i propri parametri il diritto è sempre impeccabile, la politica - soprattutto quella internazionale - non è mai giustificata quando i risultati sono negativi. Essa per così dire respondit etiam de casu, anche della sfortuna. George W.Bush ha reputato che per l’America fosse un interesse vitale invadere l’Afghanistan: se la storia dovesse decretare che invece ha danneggiato gli Stati Uniti, basterebbe a difenderlo la certezza della sua buona fede? Napoleone diceva che non voleva soltanto generali “bravi”, li voleva anche “fortunati”: per lui la battaglia non era un esame teorico di tecnica bellica: bisognava conseguire dei risultati, anche violando le regole della Scuola di Guerra. E l’eventuale sfortuna non era una giustificazione. La politica perdona al Principe d’aver mancato alla parola data, d’aver tradito un alleato, persino d’aver commesso ruberie e delitti, se il risultato è la gloria e la prosperità del Paese. Mentre non perdona gli errori di un perfetto galantuomo, persino quelli di cui non è per nulla responsabile. Si pensi all’azione di kommando ordinata da Jimmy Carter per salvare gli ostaggi dell’ambasciata di Tehran: i diplomatici non furono liberati, l’America fu ridicolizzata e l’episodio non è mai stato dimenticato. Mentre l’azione di kommando di Entebbe, che pure violò la sovranità ugandese, è rimasta una pagina di gloria, per Israele. Questi principi sono chiari e tuttavia gli orrori della Seconda Guerra Mondiale hanno indotto gli uomini a credere di poter mettere il guinzaglio giuridico alla politica. Nel Processo di Norimberga gli imputati furono anche accusati di “avere pianificato, iniziato e intrapreso delle guerre d'aggressione”, criterio col quale si sarebbero potuti processare Alessandro il Macedone, Giulio Cesare, Gengis Khan, Maometto II, Napoleone e chissà quanti altri. Con la difficoltà aggiuntiva di stabilire che cosa si intenda per guerra d’aggressione. I romani crearono uno sterminato impero ogni volta inglobando il territorio da cui poteva venire una minaccia: per ragioni difensive, dunque. In ogni tempo la mancanza di frontiere naturali e il famoso “complesso dell’accerchiamento” hanno indotto Mosca a spingere queste frontiere il più lontano possibile, dalla Polonia al Pacifico. Durante la lunga pace seguita al 1945 - la più lunga di cui si abbia memoria, in Europa  - si sono dimenticate le durezze della grande politica. Si è creduto all’esistenza di una legge internazionale e persino a una democrazia fra gli Stati: infatti si vota nell’Ue e all’Onu. A poco a poco la politica ha perduto peso e oggi qualcuno parla di “pan-giuridicismo”: cioè della tendenza a sottoporre a un severo vaglio di legalità tutte le attività umane. Il risultato è un impressionante restringimento dell’ambito della libertà e il gran numero di sindaci, dirigenti d’azienda, assessori, direttori di enti pubblici e alti funzionari sotto processo per le ragioni più svariate. Ovviamente l’ideale sarebbe un governo composto di galantuomini per giunta geniali, ma purtroppo, dovendo scegliere, la società tende a un Paese amministrato magari male ma in modo giuridicamente perfetto. Meglio il galantuomo incapace che il condottiero carico di gloria, se gli si può rimproverare un piccolo peculato. In Italia la massima accusa non è aver governato male (provocando danni, poniamo, per cinque miliardi di euro), ma aver intascato un milione, pure se si sono fatti risparmiare ai cittadini cinque miliardi. Non si comprende che il governante incapace è quello che impone alla nazione il massimo costo. In Italia ormai siamo convinti che non si possa che vivere di amministrazione ordinaria, come si direbbe in un condominio. Chissà che lo scoppio di una grande crisi economica, provocando tutti i danni che può provocare, non rimetta il contatore a zero. Sicché alla fine si preferisca di nuovo un Richelieu o un Bismarck a Chamberlain e a Jimmy Carter. Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it http://feeds.feedburner.com/BlogFidentino-CronacheMarziane

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