Il disastro del vajont, storia di una tragedia annunciata

Creato il 09 ottobre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

La sinistra mole della diga (wikipedia.org)

di Emiliano Morozzi

Sono passati cinquant’anni da quel tragico 9 ottobre 1963, giorno del disastro del Vajont, ma l’imponente parete di calcestruzzo della diga ancora oggi rimane lì come un eterno monumento alla memoria di una strage annunciata.

La diga del Vajont, uno sbarramento artificiale di più di duecento metri d’altezza che avrebbe chiuso la valle del torrente medesimo all’altezza del ponte Colomber, era un progetto ambizioso che aveva però i piedi d’argilla: l’invaso era stato infatti costruito senza tenere troppo in considerazione la morfologia del luogo e soprattutto il fatto che le montagne circostanti erano state teatro di numerosi episodi franosi durante i secoli precedenti. Fu una tragedia annunciata proprio per questo: le avvisaglie del disastro c’erano state ed erano state ripetute, ma coloro che si occupavano della sicurezza del bacino, pensavano di poter tenere sotto controllo una eventuale frana e sottostimavano le dimensioni della stessa.

Quello che avvenne durante la serata del 9 ottobre era in realtà l’epilogo di una serie di fenomeni avvenuti negli anni precedenti: le prime verifiche sulle sponde del lago, misero in evidenza il rischio di frane lungo la sponda sinistra. Il 22 marzo del 1959 avvenne il primo episodio inquietante, che avrebbe dovuto mettere in allarme gli esperti: in località Pontesei, una frana di grandi dimensioni precipitò nel bacino generando un’onda anomala che provocò una vittima. Analogo evento accadde circa un anno dopo, quando un’altra frana di notevoli dimensioni si staccò dal monte Toc, provocando anche in questo caso una pericolosa ondata e costringendo i tecnici allo svuotamento dell’impianto per evitare pericoli e per condurre le necessarie verifiche sulle montagne circostanti. La frana del monte Toc (il “monte marcio“, nel dialetto locale, una definizione che calzava tragicamente a pennello alla montagna maledetta) del 1960 fu sottovalutata dagli esperti e la giornalista Tina Merlin, che si era da sempre battuta contro la realizzazione della diga, venne denunciata e le sue accuse rimasero inascoltate: quando il disastro avvenne, altri colleghi autorevoli come Montanelli e Buzzati la accusarono di sciacallaggio, sostenendo lo status di calamità naturale del disastro.

Certo, vi furono anche imprevedibili condizioni metereologiche a favorire il disastro: la penuria di precipitazioni durante il biennio 1962-1963 spinse i responsabili della diga a riempirla il più possibile per mantenere l’operatività della centrale elettrica, ma gravi restano le responsabilità umane, prima fra tutte l’aver pensato di costruire una diga e relativo lago artificiale in mezzo a montagne soggette spesso alle frane e l’innalzamento delle acque del lago che fu una delle cause della gigantesca frana del monte Toc. Tre onde d’acqua, generate dalla terribile frana, seminarono morte e distruzione: due di esse spazzarono le rive del lago distruggendo i paesini che sorgevano ai margini dell’invaso ma fu la terza quella che produsse i danni maggiori. 50 milioni di metri cubi d’acqua scavalcarono la sommità della diga (che resse all’impatto, altrimenti il disastro avrebbe potuto avere connotati ancor più drammatici) piombando a valle e cancellando dalla cartina geografica buona parte del paese di Longarone e delle località limitrofe.

Dal paese ricostruito, si vede ancora quella parete verticale di calcestruzzo, che domina la vallata come un macabro simbolo dell’avidità umana, di chi ha deciso di costruire lì la diga, incurante del pericolo che essa poteva rappresentare.

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