Il discorso del re

Da Valentina

Il discorso del re (The King’s Speech) è un film profondo, ricco di sentimento, coinvolgente e vero.
Racconta infatti una storia realmente accaduta: la storia di un uomo, Re Giorgio VI (Colin Firth), affetto da una terribile balbuzie che lo accompagna fin dalla nascita e che gli fa vivere imbarazzanti quanto disdicevoli avventure sociali nei suoi discorsi al grande pubblico. La sceneggiatura era già stata preparata anni fa ma ha preso vita su pellicola solo ora perché il film mette a nudo una figura quasi mitologica che solitamente viene immaginata dalla collettività come invincibile e priva di qualsivoglia difetto: proprio per questo lo sceneggiatore promise alla allora regina madre di non trasformare questa storia in un film per il tempo in cui fosse stata ancora in vita.

Dopo aver guardato questo film mi sono documentata – come sempre avviene quando un qualcosa mi colpisce – e ho scoperto che si è cercato di riprodurre fedelmente anche i caratteri e le situazioni dei vari personaggi; come la ritrosia per la futura regina Elizabeth Bowes-Lyon (Helena Bonham Carter) di diventare tale per la sua insofferenza alla vita di corte (non vi ricorda un po’ Lady D?), insofferenza che confessa al marito con la sua tenerissima battuta: «All’inizio rifiutavo le tue proposte di matrimonio perché mi spaventava la vita di corte. Ma poi ho pensato: balbetta così meravigliosamente che ci lasceranno in pace…»

Il discorso del re infatti non parla tanto di Storia quanto di una storia, non parla tanto di un re ma di un uomo e non parla tanto di intrighi politici quanto di sentimenti. Il futuro re Giorgio VI, nato Albert Frederick Arthur George Windsor e chiamato dalla famiglia col vezzeggiativo di Bertie è un uomo insicuro, aiutato in questo anche dalla famiglia stessa che ne ha sempre accentuato i difetti ingigantendoli invece che moderarli. Spinto da un forte senso del dovere accetta a malincuore la corona a cui il fratello maggiore Edward VIII (Guy Pearce) era destinato e a cui rinuncia per sposare una divorziata americana, Wallis Simpson (Eve Best), a cui era preclusa la mano in quanto essere re significa anche essere capo della Chiesa anglicana (e qui mi ritorna ancora una volta in mente la storia di Lady D.)

Per ovviare al suo difetto, incompatibile con la carica che è chiamato a ricoprire, il nostro consulta tutti i maggiori logopedisti e specialisti della Gran Bretagna senza trovare chi possa aiutarlo a risolvere realmente il suo problema. Solo grazie all’aiuto della moglie, testarda come e più di lui riuscirà a trovare in Lionel Logue (Geoffrey Rush) un insegnante ma sopratutto un amico che riuscirà a tirar fuori da Bertie sia la voce che la sicurezza in sé stesso, più una forza che neanche il re stesso pensava di avere. Divertenti le scene in cui Logue “allena” il reale con metodi che all’epoca risultavano strambi e privi di senso: rilassamento dei muscoli, controllo del respiro e sopratutto un’analisi psicologica ancora rudimentale che rivela l’intelligenza dell’australiano nell’intuire che la balbuzie del suo illustre paziente non deriva solo da un disagio fisico ma sopratutto mentale.
Il futuro Giorgio VI come dicevo prima è un uomo insicuro ma non privo di carattere: lo dimostra nei suoi scatti di alterigia e sopratutto nel sacrificio che egli compie nell’accettare la corona per dovere, spinto dagli eventi, e non per ambizione o piacere personale.

Durante la visione del film mi dicevo che in fondo la balbuzie non è un difetto così grave e sulle prime non capivo dove fosse tutto questo “disonore” nell’esserne affetti. Poi ho pensato all’epoca in cui la storia è ambientata: in un periodo storico dove l’unico mezzo di comunicazione di massa vocale è la radio, in cui molto spesso i sudditi non conoscono affatto l’aspetto del proprio re (vedi lo stesso Lionel Logue che non riconosce la futura regina la prima volta che se la trova davanti) e che lo individuano come loro guida solo sentendolo attraverso un altoparlante balbettare può essere un sintomo di debolezza che non si addice ad un comandante e non sprona né incoraggia al meglio popolo e soldati davanti alla grave prova cui devono essere pronti.

Trovo che i 4 Oscar appena vinti siano più che meritati: miglior film, miglior regista (Tom Hooper), miglior attore (Colin Firth), migliore sceneggiatura originale (David Seidler). Mi dispiace solo per la “sola” nomination al miglior attore non protagonista per Geoffrey Rush e la “sola” nomination miglior attrice non protagonista a Helena Bonham-Carter, superbi nelle loro interpretazioni dell’eccentrico quanto brillante esperto in logopedia australiano Lionel Logue e della consorte reale Elisabeth. Un plauso anche alle musiche, tenere e drammatiche quanto la storia stessa rappresentata nella pellicola. Consiglio di vederlo in lingua originale: io stessa vorrò farlo, quando mi sarà possibile, per apprezzare ancora di più l’interpretazione del balbuziente re e perché si sa che le voci proprie degli attori trasmettono ancora di più di quanto non facciano i loro doppiatori.

La parte finale del film, che è poi quella principale che dà non a caso il titolo alla pellicola, è densa di emozioni: lo spettatore tifa per il re, si sente partecipe dell’angoscia e preoccupazione generale che circondano questa figura di uomo e di reale che ha sulle sue spalle il grosso peso di unire  con la sua voce così dispettosa l’intero popolo inglese e di prepararlo alla imminente seconda guerra mondiale. Concludendo, “il discorso del re” è un film che parla sopratutto di sentimenti, di amicizia e di amore. L’amicizia che il re stringerà con Logue e l’amore che lo lega alla moglie Elisabeth, sempre al suo fianco e sempre presente per incoraggiarlo, anche quando tutto sembra essere inutile. Come in una favola moderna lo spettatore assiste passo passo alla trasformazione del piccolo ed insicuro Bertie nel grande e forte re Giorgio VI, la cui voce oramai priva di incertezze è in grado di dare coraggio ad una Nazione schiacciata dal peso dell’imminente guerra che bussa alla sua porta.


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