Il dono della teoria

Creato il 27 maggio 2014 da Francosenia

Il "lato oscuro" del valore e il dono
di Anselm Jappe

Nei quasi 30 anni, nel corso dei quali la teoria del dono è diventata uno dei pensieri sociali più importanti, essa si è dovuta spesso confrontare con i paradigmi di origine marxista. Il progetto di elaborazione di una critica radicale dei fondamenti stessi della società delle merci e dei suoi presupposti storici, ma su basi diverse dal marxismo, potrebbe essere definita dal percorso del MAUSS (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali) e di quello che l'ha portato a scegliere Marcel Mauss e Karl Polanyi come riferimenti teorici maggiori. Invece di essere esplicitamente anti-marxista, come lo sono state molte teorie di moda nello stesso periodo storico, la teoria del dono sembra voler passare a lato di Marx, tentando di edificare una critica sociale tanto ricca quanto quella di Marx, ma senza le sue conseguenze politiche, giudicate disdicevoli, e senza che questo venga percepito come un suo limite e una sua unilateralità per quanto riguarda le concezioni di base. Il difetto principale di tutta la teoria marxista, agli occhi di MAUSS, è il suo economicismo: lo si accusa di ridurre l'essere umano alla sua sola dimensione economica, o quanto meno di attribuire a tale dimensione una preponderanza assoluta. L'approccio marxista sarebbe strettamente utilitarista: gli uomini sono guidati solo dai loro interessi, interessi strettamente materiali ed individuali. Nelle sue basi filosofiche ed antropologiche, il marxismo dimostrerebbe anche una sorprendente parentela col liberalismo borghese: è la concezione dell'uomo come Homo œconomicus, incapace di qualsiasi atto che non sia , direttamente o indirettamente, parte di un calcolo volto a massimizzare i benefici. Lungi dal dispiacersene, i marxisti traggono un piacere maligno dal dimostrare che nella società borghese tutte le manifestazioni di simpatia, di generosità o di disinteresse, non sono altro che un velo ipocrita steso sull'eterno scontro di interessi antagonisti. Questo tipo di marxismo non è una pura "costruzione", messa insieme dai teorici del dono per distinguersi più facilmente. Esiste per davvero, e non è necessario qui approfondire ulteriormente una tale evidenza. Ma si può ridurre tutta la teoria di Marx ad un tale "economicismo"? Siamo sicuri di non poter trovare nello stesso Marx quegli strumenti teorici in grado di farci uscire dal paradigma utilitarista? In altre parole, la teoria del dono ed un approccio basato su alcuni concetti di Marx, sono necessariamente incompatibili? E se non lo sono, si tratta di incollarne i pezzi insieme, di stabilire delle "competenze specifiche" per ciascuno degli approcci, o si può, piuttosto, constatare una convergenza (sicuramente, parziale) sullo stesso sfondo?
Nel 2003, ho pubblicato un libro, dal titolo "Le avventure della merce", che apparentemente non sarebbe "marxista" - in effetti, si è attirato le ire dei diversi sostenitori di quello che oggi passa per marxismo - ma che sviluppa le conseguenze di certe categorie di Marx. Non mi sono troppo interessato di altri apporti teorici; ma verso la fine, ho potuto rilevare che aveva trovato in Polanyi, in Mauss e nei pensatori del dono, delle osservazioni che andavano nello stesso senso della critica marxiana, così come l'avevo ricostruita. Per cui ho suggerito che questi pensatori non marxisti avrebbero potuto essere più prossimi all'eredità di Marx della maggior parte di coloro che oggi si richiamano al "marxismo". In quel che segue, non si tratterà di affermare che il paradigma del dono ed il pensiero di Marx coincidano punto per punto, ma di dire che una certa rilettura di Marx, quale quella fatta dalla "critica del valore", permette di trarre delle conclusioni che in parte coincidono con quelle della teoria del dono.
Non bisogna dimenticare che Il Capitale non ha per sottotitolo "Trattato di economia politica", bensì "Critica dell'economia politica". In tutta l'opera di Marx, all'inizio come alla fine, si trovano delle osservazioni che criticano perfino l'esistenza stessa di una "economia". La sua intuizione per cui un'economia separata dal resto delle attività sociali ("disincastonata", direbbe Polanyi) costituisce già un'alienazione, è stata ripresa da alcuni dei suoi interpreti. Così, nel 1923, il più lucido pensatore marxista della sua epoca, Georg Lukács, scriveva a proposito della futura "economia socialista": "Questa 'economia' tuttavia non ha più la funzione che precedentemente aveva tutta l'economia: essa dev'essere la serva della società diretta coscientemente; essa deve perdere la sua immanenza, la sua autonomia che ne fa propriamente un'economia; essa dev'essere soppressa in quanto economia".
A partire dagli anni 1940, coloro che mettono in dubbio il legame necessario fra la critica marxiana del capitalismo ed una concezione utilitaristica e produttivistica dell'uomo, volta esclusivamente ad espandere il suo dominio sulla natura, furono soprattutto i rappresentanti della Scuola di Francoforte, Theodor W. Adorno ed Herbert Marcuse in testa, così come, in modo un po' diverso, i situazionisti e Guy Debord. L'esperienza dell'arte moderna costituiva, presso gli uni come presso gli altri, il modello di un rapporto meno "interessato" con le cose, più ludico e più conviviale. Nella misura in cui queste correnti critiche vedono il maggior difetto della società del dopoguerra, non più nella miseria materiale, ma nell'alienazione della vita quotidiana, l'uscita che prevedono non deve più avvenire esclusivamente a livello economico, ma mira a comprendere tutti gli aspetti della vita. E' allora la questione del lavoro a costituire il vero problema. Marx ha esitato, dalle sue prime opere di gioventù fino ai suoi ultimi scritti, come la Critica del Programma di Gotha, fra il programma di una liberazione del lavoro (quindi attraverso il lavoro) e quello di una liberazione dal lavoro (quindi liberandosi del lavoro). La sua critica dell'economia politica contiene una profonda ambiguità in rapporto al lavoro. Il movimento operaio ed il marxismo ufficiale, diventati in certi paesi l'ideologia di una modernizzazione di recupero, e negli altri quella dell'integrazione effettiva della classe operaia, ne hanno trattenuto solo la centralità e l'elogio del lavoro, concependo ogni attività umana come un lavoro e chiamando all'avveramento di una "società dei lavoratori". I primi a mettere in dubbio l'ontologia del lavoro, pur richiamandosi a dei concetti essenziali in Marx, furono gli stessi autori critici dell'economia che abbiamo citato. Il "Non lavorate mai" dei situazionisti, ereditato da Rimbaud e dai surrealisti, si unisce al "gran rifiuto" di cui parla Marcuse. Tuttavia, la più parte di quelli che avevano cominciato la loro carriera intellettuale nel corso dei "gloriosi trenta", all'insegna del marxismo scelgono, per allontanarsene, di accusare il pensiero marxista - anche nelle sue versioni più eterodosse - di prendere in considerazione solo una parte limitata dell'esistenza umana. Le sue analisi economiche possono essere corrette - affermano - ma il pensiero marxista fallisce miseramente quando ne vuole trarre delle implicazioni per le altre sfere dell'esistenza umana: lingustica, simbolica, affettiva, antropologica, religiosa, ecc.. Cornelius Castoriadis e Jürgen Habermas sono dei casi paradigmatici fra coloro che hanno ridotto Marx ad un esperto di economia, di cui si poteva trarre una certa utilità, ma che non sarebbe molto "competente" nei vasti altri campi della vita che ci si aspetta che obbediscano a logiche ben diverse.

Un'altra strada è stata seguita da una corrente internazionale, chiamata sovente "critica del valore". Questa tenta, piuttosto, di dimostrare che la critica dell'economia politica di Marx contiene una messa in discussione delle basi della società capitalista molto più radicale di quella poi proposta dal marxismo tradizionale: il valore, il denaro, la merce ed il lavoro non sono più considerati dalla "critica del valore" come dei dati "neutri" e trans-storici, eterni, ma come il cuore della specificità negativa del capitalismo moderno. Sono dunque queste categorie di base che bisogna criticare, e non solo l'esistenza delle classi sociali, del profitto, del plusvalore, del mercato e del rapporto giuridico di proprietà - che sono essenzialmente le forme di distribuzione del valore, cioè a dire, dei fenomeni derivati. Questo punto di vista viene sviluppato, a partire dagli anni 1980, da Moishe Postone, professore a Chicago, nella sua grande opera "Tempo, lavoro e dominazione sociale". Inoltre, viene elaborato poco a poco dalla rivista tedesca "Krisis" (dal 1987) e da "Exit!" e dal principale autore Robert Kurz. Poco importa se li si vuole chiamare neo-marxisti, post-marxisti, o in qualche altra maniera. Per loro, non si tratta di "combinare" l'approccio marxista, o considerarlo come tale, insieme ad altri approcci, bensì di leggere l'opera dello stesso Marx in modo molto diverso da come hanno fatto i marxisti per più di un secolo. Questi avevano messo al centro della loro critica il plusvalore e la sua distribuzione, ed hanno ontologizzato il valore, che però ne è la base, e che è un prodotto altrettanto storico. Anziché effettuare un'ampia comparazione fra il punto di vista della critica del valore e quello della teoria del dono - che rimane comunque auspicabile - mi limiterò qui ad indicare qualche punto in cui la critica del valore più si allontana dal marxismo tradizionale e dove un confronto teorico con la teoria del dono, sembra più promettente. Nel migliore dei casi, ciascuna delle due teorie ne uscirà arricchita e colmerà qualche lacuna nella sua propria concezione. Questa prima bozza di un confronto, si limita essenzialmente alla sfera teorica. Lascia da parte le conseguenze pratiche dove la distanza è più grande - soprattutto per quanto riguarda le speranze che la teoria del dono ripone nell'associazionismo, nel "terzo settore", ecc., fino al progetto di fondare un "socialdemocrazia radicalizzata ed universalizzata" al fine di tornare al modello fordista, considerato come una forma di "re-incastonamento dell'economia nella società". Questo, agli occhi della critica del valore, non è né possibile né auspicabile.
Moishe Postone si impegna soprattutto a dimostrare che Marx, al contrario di quasi tutta la tradizione marxista, non sostiene affatto il punto di vista per cui lavoro, concepito come un'essenza eterna, che esiste nel capitalismo, si troverebbe "nascosto" dietro le altre formazioni sociali: "In altre società, le attività lavorative si trovano incorporate dentro una matrice sociale non travestita, e non sono quindi né delle essenze né delle forme fenomeniche". E' il ruolo unico, giocato dal lavoro sotto il capitalismo, che costituisce sia il lavoro come essenza che il lavoro come forma fenomenica. In altri termini, poiché i rapporti sociali che caratterizzano il capitalismo sono mediati dal lavoro, questa formazione sociale ha come particolarità quella di avere un'essenza." E' solo nel capitalismo che il lavoro, invece di essere "incorporato" nell'insieme delle relazioni sociali, come avviene nel caso delle società pre-capitaliste, diventa esso stesso un principio di mediazione sociale. Il movimento di accumulazione di unità di lavor morto (cioè, del lavoro già svolto) sotto forma di "capitale" diventa il "soggetto automatico" - il termine è di Marx - della società moderna. Naturalmente, ogni società deve organizzare in qualche maniera la sua produzione materiale, il suo "metabolismo con la natura" (Marx), ma nelle società pre-capitaliste questa produzione rientra nel quadro sociale organizzato secondo criteri diversi dallo scambio di unità di lavoro tra produttori formalmente indipendenti. Ecco perché lì non esistono né il "lavoro" né "l'economia" in senso moderno. Il lavoro, nel senso moderno, ha una doppia natura: è, allo stesso tempo, lavoro concreto e lavoro astratto (che, per Marx, non ha niente a che vedere col "lavoro immateriale"). Non si tratta di due tipi differenti di lavoro, ma di due aspetti del lavoro stesso. Quel che crea il legame sociale nel capitalismo, non è la varietà infinita dei lavori concreti, ma il lavoro nella sua qualità di essere un lavoro astratto, sempre uguale e sottomesso al meccanismo feticista della sua crescita, la quale è la sola finalità. In tali condizioni, la socializzazione non si crea che "post festum", come conseguenza dello scambio di unità di valore, e non come suo presupposto. Laddove la produzione è organizzata intorno al lavoro astratto, si può dunque dire che il legame sociale si costituisce in maniera già alienata, sottratta al controllo umano, mentre nelle altre società il lavoro è subordinato ad un legame sociale stabilito in maniera differente. La "sintesi sociale" esiste perciò sotto due forme principali ed opposte: sia attraverso lo scambio di doni - dove il fine è la produzione di un legame fra le persone -, sia attraverso lo scambio di equivalenze, dove la produzione di un legame non è altro che la conseguenza, pressoché accidentale, di un incontro, sul mercato anonimo, fra produttori isolati. Il dono può essere descritto come una forma di organizzazione sociale in cui il lavoro ed i suoi prodotti non mediano sé stessi, "alle spalle" dei partecipanti; è dunque una socialità diretta, non governata da rapporti autonomizzati fra cose. Il dono non è una cosa, come ci ricordano i pensatori del dono, ma sempre una relazione, "una relazione sociale sintetica a priori, che è vano voler ridurre agli elementi che esso collega fra di loro". Ne consegue che "l'economicismo", in quanto subordinazione all'economia di tutte le attività umane, non è un errore della teoria: è ben reale dentro la società capitalista - ma solamente in essa. Non è un dato immutabile dell'esistenza umana, ed ancor meno qualcosa da rivendicare. Questa subordinazione costituisce, al contrario, un aspetto della società capitalista che può e che dev'essere cambiato. Si deve quanto meno sottolineare che questa centralità della "economia" e dell'aspetto "materiale" in generale, nella modernità, (a scapito per esempio della "riconoscenza") si spiega solo per l'autonomizzazione del lavoro astratto. Postone forse va un po' troppo lontano nell'identificare semplicemente il Marx che egli ricostruisce con l'edificio teorico di Marx - il quale, ben più di quanto Postone ammetta, contiene anche numerosi elementi sui quali è stato in seguito costruito il marxismo "tradizionale" del movimento operaio. La "critica del valore", formulata in Germania da Kurz, da Krisis e da Exit!, preferisce distinguere fra una parte "essoterica" dell'opera di Marx - la teoria della lotta di classe e dell'emancipazione degli operai, che alla fine è diventata una teoria per la modernizzazione del capitalismo in un'epoca in cui esso aveva ancora numerosi tratti pre-modeni - ed una parte "esoterica" in cui Marx ha analizzato - segnatamente nei primi capitoli del Capitale - il nucleo stesso della società delle merci: la doppia natura del lavoro e la rappresentazione del suo lato astratto nel valore e nel denaro. Il valore descritto da Marx è ben lungi dall'essere una semplice categoria "economica". La rottura radicale fatta da Marx in rapporto ai fondatori dell'economia borghese, Smith e Ricardo, consiste nel non considerare più la rappresentazione del lavoro nel "valore", come qualcosa di neutro, di naturale e di innocente. Non è il lato concreto di un lavoro quello che si trova ad essere rappresentato nel valore, e dunque in una quantità di denaro, ma è la sua parte astratta - la semplice durata della sua esecuzione. E' il lavor astratto che determina il valore di una merce. Non è l'utilità o la bellezza di un tavolo a costituirne il suo valore, ma il tempo impiegato a produrlo, insieme ai suoi componenti. Il lavoro astratto è per definizione indifferente ad ogni contenuto e non conosce altro che la quantità e la sua crescita. Subordinare la vita degli individui e dell'umanità intera ai meccanismi di tale accumulazione senza nemmeno averne coscienza: ecco il "feticismo della merce" di cui parla Marx. Questo "feticismo" è ben lungi dall'essere una semplice mistificazione, un velo, come viene spesso creduto. Va inteso nella sua dimensione antropologica, cui ci rimanda l'origine della parola: la proiezione della potenza collettiva dentro dei feticci che l'uomo stesso ha creato e da cui crede di dipendere. La merce è in un certo senso del tutto oggettivo - e non solo psicologico - il totem intoro al quale gli abitanti della società moderna organizzano la loro vita. Quest'autonomizzazione del valore, e dunque della ragione economica, esiste solo nella società capitalista. Eì xcò che Marx ha descritto come il rovesciamento della formula "Merce-Denaro-Merce" in "Denaro-Merce-Denaro", e che non può esistere altro che nella formula "Denaro-Merce-Più Denaro". Così, la produzione di beni e di servizi non è altro che un mezzo, un "male necessario" (Marx), per poter trasformare una somma di denaro in una somma di denaro più grande. Ne consegue il "produttivismo", così caratteristico del capitalismo. Il "valore", perciò non è limitato ad una sfera particolare della vita sociale. E' piuttosto una "forma a priori", in un senso quasi kantiano: in una società delle merci, tutto ciò che esiste viene percepito come quantità di valore, dunque come somma di denaro. La trasformazione in valore si pone come mediazione universale tra l'uomo ed il mondo; sempre in termini kantiani, il valore è il "principio di sintesi" della società basata su di esso. Questo porta la critica del valore a rigettare la pretesa del "materialismo storico" ad avere una validità trans-storica, così come a rifiutare l'opposizione fra "base" (economica) e "sovrastruttura". Da un lato, il feticismo della merca è un fenomeno moderno - le società precedenti si basavano si altre forme di feticismo. Dove il lavoro era subordinato ad un ordine sociale stabilito e dove serviva soprattutto a perpetuare le gerarchie sociali esistenti, come nell'Antichità o nel Medioevo, non poteva svilupparsi una dinamica auto-istitutiva, come avverrà più tardi quando si trasformerà in un sistema basato sull'accumulazione tautologica di unità di lavoro morto che forgia da sé il suo personale di servizio. Ma anche nella società delle merci completamente sviluppata, non può essere solo questione di un "primato dell'economia". Il valore è piuttosto una "forma sociale totale". La stessa logica - che, sul piano più generale, consiste nel subordinare la qualità alla quantità, e nell'indifferenza al contenuto concreto - la si ritrova a tutti i livelli dell'esistenza sociale, fin nei recessi più intimi di coloro che vivono in una società delle merci. La forma-merce è allo stesso tempo una forma-pensiero, come ha dimostrato il filosofo tedesco Alfred Sohn-Rethel (1899-1991). Il pensiero astratto e matematico, così come la concezione astratta del tempo, è stato, a partire dall'Antichità, ma soprattutto dopo la fine del Medioevo, tanto una conseguenza quanto un presupposto dell'economia monetaria e delle merci, senza che si riesca a distinguere tra quello che proviene dalla "base" e quello che proviene dalla "sovrastruttura".

Tuttavia, si potrebbe obiettare che la critica del valore, anche se non concepisce il valore in senso puramente economico, lo vede sempre come un principio "monista": la società contemporanea sarebbe completamente determinata dal valore, e dunque dallo scambio di equivalenti. Non esisterebbe alcuno spazio per il dono e per gli atti che non sono legati ad un calcolo. In verità, la critica del valore ha superato velocemente, nel corso del suo sviluppo, una tale concezione (che renderebbe altresì impensabile ogni fuoriuscita positiva dal capitalismo). Il valore non esiste, e non può esistere, altro che in un rapporto dialettico con il non-valore, e questo rapporto è necessariamente antagonista. Storicamente, la produzione di merci ha avuto luogo per molto tempo solo in delle nicchie; era limitata a dei settori molto ristretti (per esempio, l'industria della lana). Tutto il resto della produzione obbediva ad altre leggi, dal momento che veniva assicurata dalla produzione domestica e dall'appropriazione diretta (schiavitù, servaggio). La diffusione storica del capitalismo si identifica con un'estensione progressiva della produzione delle merci a dei settori sempre nuovi della vita. Dopo essersi impadronito di tutta l'industria e dell'agricoltura nel corso del XIX secolo, nel XX secolo invade la riproduzione quotidiana, soprattutto sotto forma di "servizi". Che sia la messa in opera dell'industria agroalimentare o la commercializzazione delle cure rivolte all'infanzia o alla vecchiaia, che sia lo sviluppo dell'industria culturale o lo sviluppo di nuove terapie: il bisogno bulimico del capitale di trovare delle sfere sempre nuove di valorizzazione del valore, lo spinge a "rendere produttive" delle sfere vitali che prima non avevano "nessun valore". Questa "colonizzazione interna" della società ha giocato un ruolo grande almeno quanto quello della "colonizzazione esterna", al fine di contrastare la tendenza endemica ad esaurirsi, della produzione di valore, a causa della sempre minore quantità di valore "contenuto" in ciascuna singola merce. La diminuzione permanente è il risultato della tecnologia che rimpiazza il lavoro vivente, unica fonte del valore della merce.
Il processo di "rendere produttivo" quello che non è ancora assoggettato alla logica del valore non è finito, né mai potrà esserlo. Infatti, queste vittorie della mercificazione sono altrettante vittorie di Pirro. Occupando e rovinando le sfere non di mercato, il capitale risolve, a breve termine, i suoi problemi di valorizzazione sul piano economico. Ma così facendo mina le sue proprie basi sul piano sociale. La logica della merce, basata sull'indifferenza dei contenuti e delle conseguenze, non è praticabile in quanto tale. Una società non potrebbe mai fondarsi esclusivamente su tale logica, perché ne risulterebbe l'anomia più totale. Numerose attività di base della vita, a cominciare dall'educazione dei bambini, dalla vita amorosa, o da un minimo di fiducia reciproca, non potrebbero funzionare secondo la logica di mercato dello scambio di equivalenze e sul modello del contratto. La logica delle merci, per poter funzionare, per disporre di una società, in seno alla quale evolversi, ha bisogno che una parte della vita sociale si svolga secondo dei criteri non di mercato. Ma allo stesso tempo, la sua logica cieca e feticista ( e non la strategia di un mega-soggetto chiamato "classe capitalista") la spinge a rosicchiare questi spazi. Così, per la critica del valore, il valore non è affatto una "sostanza" che si sviluppa, ma una sorta di "niente" che si nutre del mondo concreto e lo consuma. Mentre, non solo il pensiero borghese, ma perfino la quasi totalità del marxismo ha accettato il valore come un dato naturale ed ha argomentato a suo nome (la gloria della classe operaia che "crea tutto il valore"), la critica del valore lo ha invece visto come una forma storicamente negativa e distruttrice. Se il capitale non è mai riuscito a trasformare tutto in valore, è perché questo trionfo sarebbe stato anche la sua fine. Il valore non è la "totalità", una realtà che ingloba tutto, e di cui ci si deve impadronire, ma è "totalitario" nel senso che ha la tendenza a ridurre tutto a sé stesso, senza poterci tuttavia riuscire. La totalità esiste soltanto come "totalità spezzata". Così, la critica del valore rivendica di essere andata molto più lontano delle altre critiche dell'economicismo, dal momento che ne ha indicato chiaramente le cause. La stessa critica della crescita non ha senso che quando si lega ad un'analisi della dinamica inerente al valore, e della crisi verso cui questo dinamismo interno inevitabilmente ci porta. Infatti, la previsione di una crisi maggiore, dovuta al limite interno del sistema del sistema di valorizzazione del valore, ha sempre costituito, da vent'anni, una delle assi principali della critica del valore, ed ora è stata largamente confermata.
Quindi la critica del valore concorda con il paradigma del dono in questo: anche all'interno della società contemporanea, numerosi aspetti della vita, aspetti senza i quali questa vita non sarebbe possibile, non si svolgono sotto forma di uno scambio di equivalenze, non sono misurabili per la quantità di lavoro astratto, né servono immediatamente gli interessi materiali di coloro che li compiono. Il valore "funziona" grazie al non-valore. Pertanto, si può parlare di un "lato oscuro del valore", della sua "faccia nascosta", come la faccia oscura della luna che non si vede mai, ma che però si trova là, altrettanto grande della faccia visibile.
Tuttavia, la critica del valore ne trae delle conclusioni meno ottimistiche rispetto a quelle dei teorici del dono. Per la critica del valore, la sfera non di mercato non è un'alternativa logica che corre sotto la logica trionfante di mercato e che può, in quanto tale, essere mobilitata per costituire il punto di partenza di una società non di mercato. o per posizionarsi ai margini del settore di mercato. In una società delle merci, la fera non di mercato non esiste se non come sfera subordinata e mutilata. Non è una sfera di libertà, ma è la serva disprezzata, e tuttavia necessaria, dello splendore delle merci. Non è il contrario del valore, ma il suo presupposto. La sfera del valore e la sfera del non-valore, insieme formano la società del valore. Anche se le attività non di mercato, come la vita familiare o la cooperazione fra vicini, non sono state storicamente create dalla logica del valore, ne sono state successivamente assorbite nella sua sfera e adesso sussistono come sue forze ausiliare.Non costituiscono perciò, in quanto tali, una realtà "altra", non rappresentano, nella loro forma attuale, il fulcro di una resistenza alla mercificazione. Non sono il "resto non alienato" (Adorno), né ciò che sfugge alla mercificazione. Anch'esse portano il marchio di una società feticista. La donna che si occupa della casa e che non è pagata per questo, che non crea e che non riceve alcun valore (sempre in senso economico, certo) non fa tuttavia meno parte della socializzazione attraverso il valore. Assicura questo "lato oscuro" senza il quale la produzione di valore non funzionerebbe, ma che non è soggetto alla forma-valore. L'economia domestica tradizionale non può accedere alla sfera del valore che indirettamente: organizzando la riproduzione quotidiana della forza lavoro del marito, ed allevando la forza lavoro futura. Questa sfera "dissociata" in rapporto al valore obbedisce ad altre regole: il lavoro di una casalinga non può essere descritto in termini di "sfruttamento economico" nel senso di estrazione di plusvalore. Tuttavia, essa è funzionale, perfino indispensabile alla valorizzazione. Le due sfere sono l'una il presupposto dell'altra. L'esempio della casalinga non è stato fatto a caso: la distinzione tra la sfera del valore e quella del non-valore coincide largamente con la divisione tradizionale dei ruoli tra i due sessi. La graduale introduzione della società delle merci, a partire dalla fine del Medioevo, ha significato la separazione fra il lavoro che "crea" il valore, realizzabile sui mercati, e le altre attività vitali, altrettante necessarie, ma che non si traducono in una quantità di "valore" e che perciò  non sono "lavoro". Da un lato, l'accumulazione progressiva del valore, soggetta ad una logica lineare e che si svolge in pubblico, e, da un'altra parte, la sfera della riproduzione della forza lavoro nel privato, sottomessa ad un'eterna logica ciclica: la porzione non di mercato della società delle merci. Solo la partecipazione alla sfera del lavoro dà accesso ad un'esistenza pubblica e ad un ruolo di soggetto, mentre la sfera domestica rimane ancorata ad una sorta di quasi-naturalità, fuori dalla storia e da ogni dibattito. E questo include anche il fatto che la sfera del valore è la sfera maschile, e la sfera domestica è quella femminile, esclusa per tale ragione da ogni potere ufficiale di decisione e dallo statuto di "soggetto". Si tratta, naturalmente, di una logica strutturale che non sempre è legata al sesso biologico dei suoi portatori. Nella storia, delle donne hanno fatto parte eccezionalmente, e negli ultimi decenni in modo massiccio, della sfera del valore, in quanto operaie o presidentesse; invece, i maschi che fanno parte della riproduzione quotidiana, come i domestici, e che quindi si trovano, come le donne, in un rapporto di dipendenza personale dai loro datori di lavoro, e non in un rapporto di dipendenza anonima da un mercato retto da dei contratti, sono, come le donne, esclusi dalla sfera pubblica (come il diritto di voro che quando venne concesso agli operai, non sempre venne esteso anche ai domestici).
Alla produzione di valore vengono associati i "valori" maschili: durezza verso sé stessi e verso gli altri, determinazione, ragione, calcolo; mentre le attività non di mercato vengono associati a "valori" femminili: dolcezza, comprensione, emozione, dono, gratuità. Questo non significa che le donne siano così per natura, ma che tutto ciò che non rientra nella logica del valore viene proiettato sulla "femminilità". Soprattutto oggi, viene permesso agli uomini ed alle donne di esercitare nell'altro campo, ma sempre assorbendone i valori che dominano quel settore. E' evidente che le due sfere non sono semplicemente complementari, ma sono gerarchizzate. Un certo numero di donne può accedere alla sfera maschile, alla produzione e alla gestione del valore, ma le attitudini considerate "femminili" rimangono comunque marchiate da un segno d'inferiorità in rapporto alle cose "serie". Ecco perché Roswitha Scholz ha intitolato l'articolo dove formula, nel 1992, il teorema sul rapporto fra il valore e ciò che ne viene dissociato: "E' il valore che fa l'uomo". Così riassume il problema: "Perché ciò che il valore non può afferrare, ciò che quindi viene dissociato da esso, è esattamente quello che nega la pretesa alla totalità della forma-valore; rappresenta il non detto della teoria e perciò si sottrae agli strumenti della critica del valore. Le attività femminili di riproduzione rappresentano l'opposto del lavoro astratto, è impossibile sussumerle sotto il concetto di "lavoro astratto", come ha fatto spesso il femminismo che ha largamente ripreso e fatta sua la categoria positiva del lavoro cara al marxismo del movimento operaio. Nelle attività dissociate, che comprendono fra le altre cose - e non per ultime - l'affetto, l'assistenza, la cura alle persone deboli e malate, fino all'erotismo, alla sessualità, nonché "l'amore", sono inclusi dei sentimenti, delle emozioni e delle attitudini contrarie alla razionalità di quella "economia d'impresa" che regna nel dominio del "lavoro astratto", e che si oppongono alla categoria del lavoro, anche se non sono del tutto esenti da una certa razionalità utilitarista e da certi standard protestanti" (Scholz).
Quali sono le conseguenze per la Critica del valore? Non si tratta di rivendicare un "salario per le casalinghe", perché ciò significherebbe continuare ad attribuire un'importanza sociale a quello che è rappresentato dentro un valore di mercato, e quindi nel denaro. Neppure si tratta di procedere ad una semplice valorizzazione positiva di un "lato oscuro", dissociato, nel nome della "differenza". Parimenti, sembra difficile poter organizzare una sfera del dono a lato di una sfera di mercato: la dinamica interna del capitale - e non una cattiva volontà da parte dei suoi amministratori, che potrebbe essere addomesticata con dei mezzi politici - lo spinge a conquistare settori di valorizzazione sempre nuovi. Non potrebbe mai "coabitare" pacificamente con una sfera del dono e della gratuità. La critica del valore è ben consapevole che dei rapporti sociali, diversi dallo scambio di equivalenti e diversi dal contratto, sono all'opera anche all'interno della società capitalista. Essa afferma, tuttavia, che il potenziale di emancipazione di queste forme di rapporto non potrà svilupparsi che al prezzo di un'uscita generale dal lavoro astratto in quanto forma di mediazione sociale autonomizzata e feticista. Non è quindi questione di lamentarsi di una sorta di "ingratitudine" del sistema delle merci il quale non terrebbe conto, per esempio, della "cooperazione nell'impresa". Nelle società pre-capitaliste potevano essere in grado di coesistere, come afferma Polanyi, la reciprocità, la redistribuzione e dei mercati locali; ma il mercato sfrenato, dove la trasformazione del lavoro in denaro - e dunque la moltiplicazione del lavoro astratto - diventa l'unica finalità della vita sociale, deve distruggere le altre forme di scambio, che a loro volta non possono essere ripristinate che al prezzo di un superamento globale della subordinazione del mondo concreto alla sua forma di mercato.
Alla fine, la critica del valore e la teoria del dono sono, fra i pensieri contemporanei, i due più attenti ad uno degli aspetti che minaccia maggiormente il mondo attuale: degli individui e dei gruppi sempre più numerosi diventano "superflui" dal momento che sono "inutili". "Inutili" dal punto di vista dell'utilitarismo, "inutili" dal punto di vista della valorizzazione del valore. "In una società fondata sul dovere all'utilità, non c'è niente di peggio che la sensazione di essere superflui", dice Caillé, parlando dei regimi totalitari. Ma non è forse il totalitarismo della ragione del Mercato, basato sul lavoro, che è sul punto di rendere superflui delle fasce sempre più ampie di umanità e, alla fine, l'umanità stessa? E' possibile spiegare, senza riferirsi al regno mortifero del valore astratto e del lavoro astratto, il fatto che gli individui siano diventati assolutamente interscambiabili - e perciò spiegare la loro "fungibilità" che costituisce il legame fra utilitarismo e totalitarismo? E' possibile senza comprendere la "reductio ad unum", la quale fa sì che per l'utilitarismo tutti i piaceri siano comparabili, e dunque uguali, per cui si distinguono solo quantitativamente, al punto che il "piacere di ascoltare Bach" è riducibile "a quello di gustare un camembert" (Caillé)?

- Anselm Jappe -

fonte: Critique Radicale de la Valeur


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