L’Occidente, il nostro Occidente, col passare dei giorni quasi certamente dimenticherà o almeno tenderà a dimenticare a causa del susseguirsi incessante di notizie, che i media attuali propinano a getto continuo.
Ma la mattanza dei fondamentalisti islamici ( gli al Shabaab) nel campus dell’università di Garissa è certo che avrà, e anche a breve, terribili ripercussioni nell’ esistenza della gente somala.
Gente, che era ed è riparata in Kenya anni addietro, per sfuggire alle ripetute guerre e alle persecuzioni in corso nel proprio Paese.
In alcuni quartieri di Nairobi, dove vivono già da tempo famiglie somale, esse sono, a ogni istante, sotto la minaccia di chi ha voglia di rivalsa e se la prende per un nonnulla, per un piccolo screzio, senza esitazione, ricorrendo anche alle maniere forti, con chi non ha nessuna colpa.
E ciò è cominciato in particolare dai tempi del recente attentato ad uno dei maggiori centri commerciali della città capitale. Ma forse era così anche prima.
Tra le due popolazioni, diciamolo pure, che non è mai corso storicamente buon sangue. Non c’è mai stato collante.
Ne parlo con certezza in quanto odio e disprezzo nei confronti dei somali ho avuto modo di ascoltarlo io stessa, dopo i morti di Nairobi, con le mie stesse orecchie e proprio da parte keniana.
E la dissuasione, quali che siano gli argomenti apportati per convincere del contrario, funziona con difficoltà.
Con Garissa certamente si è passata la misura.
E, se qualcuno come il vice premier di Kenyatta dice che il Paese, nei confronti dei terroristi islamici, intende ricalcare le orme degli USA dopo l’attentato alle “Torri gemelle” dell’ 11 settembre, considerato il tributo di sangue innocente versato, si può anche capire.
Quello che è inspiegabile, tuttavia, è la durezza dei provvedimenti governativi, che di certo porterà ad avere un ennesimo alto costo in termini di altre vite umane trattandosi di gente (i somali in questo caso) molto provata di suo e non certo da ieri.
E, quindi, mentre il terrorismo fondamentalista islamico persegue le sue strategie diaboliche e i suoi progetti politici e affaristici indisturbato e semina morte, il dramma resta come sempre della gente comune.
Inoltre nasce il sospetto che questa rigidità sia anche un modo da parte di Uhuru Kenyatta, l’attuale presidente del Kenya ,di mostrare il pugno forte e rafforzare così il proprio consenso popolare dopo che la polizia, che avrebbe dovuto compiere il proprio dovere, non l’ha fatto per nulla.
Ora si parla di traslocare il campo profughi di Dadaab fuori dal territorio keniano.
Il campo profughi di Dadaab, gestito dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (Acnur) è qualcosa come un enorme agglomerato umano, formato da uomini, donne, anziani e bambini, circa 600mila persone per difetto, in pieno deserto, nella normalità quotidiana molto spesso senza supporto adeguato nemmeno per quelli che sono i bisogni primari.
Ed è un campo profughi che ne include complessivamente ben altri tre (Dagahaley,Hagadera, Ifo).
La patata bollente nelle mani dell’Acnur , e quindi dell’Onu, scotta parecchio. Secondo le autorità del Kenya queste persone devono essere evacuate da quell’area e fare ritorno in territorio somalo.
Per il momento l’Onu tace anche perché tre mesi, questo è il tempo stabilito dalle autorità, sono decisamente pochi.
Dai numerosi rapporti stilati dalle diverse agenzie umanitarie sappiamo cosa accade, anche in tempi di quasi normalità, in questi campi e a causa soprattutto della promiscuità.
Sappiamo, inoltre, quanto è difficile specie per gli ultimi arrivati, dopo parecchi giorni di cammino a piedi o con mezzi di fortuna, accedere a un pasto caldo, avere poi del cibo e delle suppellettili di fortuna per il proprio nucleo familiare e un riparo per la notte.
I servizi igienici sono carenti o quando, addirittura inesistenti. E da qui violenze di ogni genere a ripetizione, per ruberie e/o eccessi d’ira, motivati dalle difficili condizioni del contesto, e stupri non di rado nei confronti delle donne. Giovani o anziane indifferentemente. Una terribile scuola di vita per i bambini, che guardano.
E tutto questo nonostante gli sforzi degli operatori addetti alla gestione e al controllo, che fanno sempre del loro meglio anche in condizioni difficilissime e con modesti mezzi.
Ora c’è da sperare che si rifletta da parte governativa su questa decisione e che si trovi una mediazione morbida per non creare danni ulteriori in altra direzione.
Perché , pur impossibilitati a interferire nelle decisioni interne di uno Stato, com’è giusto che sia, non si può stare a guardare inerti.
E poi ancora che i musulmani onesti collaborino c, come richiesto dal Paese reale e non solo dalle autorità, per stanare chi semina odio e propaga morte.
E non come è accaduto a Garissa, dove pare ci siano state delle complicità interne, che le autorità giudiziarie sono chiamate ufficialmente ad accertare nei prossimi giorni. E non sono somali.
Marianna Micheluzzi (Ukundimana)