Il dramma dell'emigrazione in America latina nel film "La gabbia dorata"

Creato il 03 ottobre 2013 da Gaetano63
Verso una terra promessa (che non esiste)
Verso una terra promessa (che non esiste) L’autore ci fa salire letteralmente a bordo di uno di quei treni sgangherati per seguire tre adolescenti poveri che tentano di raggiungere gli Stati Uniti
di Gaetano Vallini«Si imparano molte cose lungo il cammino. Qui siamo tutti fratelli, abbiamo tutti le stesse esigenze. L’importante è che impariamo a condividere. Solo così potremo andare avanti, solo così potremo raggiungere la nostra destinazione, solo un popolo unito può sopravvivere. In quanto esseri umani, non siamo clandestini in nessun luogo del mondo».  Le parole di un messicano, pronunciate pochi istanti prima che salisse su un treno merci in corsa assieme a sette suoi compagni,  colpirono così tanto il regista Diego Quemada-Díez, da spingerlo a dedicare il suo primo lungometraggio, La gabbia dorata, proprio  al dramma dell’immigrazione in America latina. Nel 2003, in cerca di una storia da raccontare, il regista di origini spagnole ma messicano d’adozione trascorse due mesi a Mazatlán.  Dopo aver letto un articolo, voleva parlare delle donne costrette a prostituirsi. Ma, ospite di un tassista messicano la cui casa si trovava vicino alla ferrovia,  in quel luogo che richiama una delle periferie esistenziali tanto care a Papa Francesco, Quemada-Díez s’imbatté nei treni merci diretti a nord stipati di immigrati che saltavano giù per chiedere acqua e un po’ di pane. Raccontavano delle difficili vite da cui fuggivano e  del viaggio allucinante che stavano compiendo tra privazioni, soprusi e violenze. E ciononostante non rinunciavano a quel sogno di futuro occultato da un inarrivabile muro di confine. «Mi sembravano eroi — confida oggi — e i loro racconti poemi epici, i loro viaggi metafore della vita, estrema drammatizzazione della vita umana».  Sono trascorsi dieci anni da allora, durante i quali il regista ha raccolto centinaia di testimonianze. Il risultato è in questo film, intenso e duro, che non racconta una storia vera ma si ispira a tante vicende reali. Per questo La gabbia dorata — che si è aggiudicato due premi a Cannes nella sezione «Un certain regard» e che giovedì 3 ottobre viene  presentato in anteprima al Festival Internazionale a Ferrara — ha il realismo del documentario (a partire dalla scelta di girare in Super16) e la drammaticità della finzione. Quemada-Díez ci fa salire letteralmente a bordo di uno di quei treni arrugginiti, sgangherati e lenti per seguire Juan, Sara e Samuel,  tre adolescenti dei quartieri poveri di una cittadina del Guatemala che tentano di raggiungere gli Stati Uniti in cerca di una vita migliore. Lungo il loro travagliato e doloroso  cammino attraverso il Messico — un film on the road si potrebbe dire, ma una strada attraverso l’inferno — si unirà a loro un altro ragazzo, Chauk, un indio del Chiapas che non conosce una sola parola di spagnolo. Sarà lui — che probabilmente non sa neppure dove stia andando — a rivelarsi, con la sua misteriosa presenza, l’unico in grado di sognare genuinamente, pur nell’incapacità di comprendere pienamente  la realtà. Con il suo innato senso di solidarietà, dovuto a una concezione comunitaria della vita, Chauk si contrapporrà all’altro ragazzo, Juan, egoisticamente attratto da un non ben definito sogno americano, con il quale condividerà la parte finale, tragica, del viaggio. Riuscendo a toccarlo e a cambiarlo nel profondo. E così lo spettatore, trascinato da un obiettivo sempre ad altezza d’uomo, portato a guardare le cose da un punto di vista che lo pone nel pieno del racconto, affronta quello  stesso percorso tra le miserie di una società in disfacimento, senza riferimenti morali, in cui alle frontiere fisiche che identificano l’egoismo di mondi diversi e dividono sempre più i poveri dai ricchi,  si aggiunge la negazione dell’umanità stessa laddove l’ingordigia del guadagno facile non pone limiti alla ferocia. Anche se non mancano gesti di concreta solidarietà: come quella che spinge i contadini a condividere il loro poco, oppure quella più istituzionale, ma non meno vera, di un sacerdote che rifocilla e ospita i migranti fino all’arrivo del treno successivo. Tuttavia, pur puntando diritto alla realtà e pur utilizzando il classico linguaggio del cinema di denuncia civile — del resto è allievo di Ken Loach — il regista non si piega a un neorealismo puro, per lasciare spazio a una messa in scena quasi costretta a raccontare ciò che ci si aspetta: i controlli non sempre corretti della polizia di frontiera, gli agguati delle bande armate di razziatori di soldi, di donne da sfruttare ignobilmente e di braccia forti da svendere, nonché i giochi sporchi dei trafficanti di droga. Così la storia finisce per perdere la freschezza derivante dalla spontaneità dei giovani protagonisti — reclutati dalla strada, ai quali il regista svelava le scene solo pochi istanti prima che venissero girate per ottenere reazioni genuine a situazioni impreviste — rimanendo in parte impigliata nel cliché di genere. Ciononostante La gabbia dorata  resta di forte impatto emotivo e comunque film meno schematico di opere analoghe. E non solo  per quel tocco surreale dei fiocchi di neve, mai visti nella realtà, ma sognati da Chauk: forse la sua magica e ingenua idea di ciò che avrebbe trovato dall’altra parte. Costringendoci a guardare la realtà attraverso gli occhi di questi ragazzi alla ricerca di una terra promessa, spinti  a confrontarsi con un mondo che non sa essere migliore e nel quale i sogni raramente si avverano, Quemada-Díez ci avverte che non si deve mai perdere la speranza, come si ascolta in una canzone che accompagna nel viaggio. Ma  ci dice anche che per coltivarla occorre un cambiamento interiore. «Si tratta — spiega — di riuscire a dominare il proprio io, di lasciarsi alle spalle l’avidità, l’aggressività, l’egoismo e la tendenza a considerare gli altri come dei nemici, per cominciare a lavorare insieme». Forse il messaggio è tutto nel saluto in lingua tzotzil che Chauk ripete ai suoi nuovi amici e che il regista sembra suggerire a tutti noi: K’uxi elan avo’onton? (“Come sta il tuo cuore?”). Perché è solo dal cuore che si può ripartire.
(©L'Osservatore Romano – 4 ottobre 2013)

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