Ecco, qui sta il punto. La questione delle risate e del fantasma. Non tanto per l'impostazione gay del ragionamento dell'autrice (che non commento perché poco esperto di cultura queer), quanto per il fatto che, come per la Maroh in Kechiche manca il lesbismo, nelle sue parole manca una cosa altrettanto decisiva, e cioè il cinema, che poi è la sola ragione che fa di La vie d'Adèle un grande film, e non una semplice storia d'amore. O forse no, La vie d'Adèle è proprio una semplice storia d'amore e nulla più, ma anche per questo, perché capace di portare in superficie il sudore della carne e il liquido del piacere, autentica e universale.
A Cannes, durante la proiezione stampa, seicento e più persone non ridevano affatto, né da etero né da gay (almeno per quello che percepivo attorno a me), e di certo non perché l'atmosfera fosse quella del circolo Pickwick. Nessuno rideva perché in effetti si assisteva, come dice la Maroh, allo svelamento di un fantasma: non però il fantasma dell'orgasmo femminile, di un piacere mistico e superiore a quello dell'uomo, bensì al fantasma del corpo, allo svelamento di una delle chimere del cinema, l'abbattimento della distanza tra l'occhio dello spettatore e la realtà che prende vita sullo schermo, con il set così preparato e riconoscibile da dimenticarsi la porta aperta, pronto a mettere in scena una superficie di emozioni e reazioni che vengono prima della mistica dell'orgasmo e al tempo stesso la superano.
C'è qualcosa di inesplicabile nei corpi delle due donne che fanno l'amore in La vie d'Adèle, qualcosa di artificiale eppure purissimo, qualcosa legato alla loro messinscena, alla loro plastica naturalezza, alla vicinanza della macchina da presa e alla sua trasparenza, senza desiderio ma con voluttà: tutto questo fa di La vie d'Adèle un film sulla vita della carne e sulla resistenza dello spirito, prima ancora che la storia di un amore lesbico. E questo, onestamente, ha poco o nulla a che fare con i fantasmi del sesso, dell'altro, del desiderio (Kechine non è Hitchcock), e molto con la capacità del cinema di lasciar parlare i corpi, di mostrarli e non abbandonarli sulla scena, senza forzarli a esprimere qualcosa che sta già nell'occhio dello spettatore. Per me è una questione di stupore, non di desiderio o piacere.