Nell’anno 1575, nel Comune di Monte Fiore, si stava costruendo una piccola chiesa nel luogo dov’era la “pentura de Aspramonte”. Alle dipendenze del capomastro Antonio di Girolamo c’era, tra gli altri, Domenico, un brav’uomo, gran lavoratore, ma alquanto pauroso e facilmente influenzabile.
Una sera, finito il lavoro, Domenico accompagnò un suo amico, che doveva trasportare della legna. Al ritorno si trovò a passare nella piana di Aspramonte. Camminava a passo spedito e intanto pensava ai rimbrotti con cui l’avrebbe accolto la moglie. Dopo aver sistemato la legna, infatti, l’amico l’aveva invitato in casa a bere un bicchiere di vino. Domenico non si era fatto pregare e aveva accettato di buon grado non uno, ma tre bicchieri di buon vino dell’ultima vendemmia e fra due sorsi e quattro chiacchiere il tempo era volato.
Era già buio pesto e non c’era anima in giro, ma gli parve di vedere qualcosa muoversi vicino alla fonte. Si avvicinò (ma non troppo) per guardare meglio e fece un salto all’indietro dallo spavento: davanti a lui c’era nientemeno che un FANTASMA! Sissignori, un fantasma vero e proprio!
Anche se prima di allora non ne aveva mai visto uno, Domenico era sicuro che si trattasse proprio di un fantasma! La figura era trasparente el’aspetto non lasciava dubbi: era un guerriero saraceno, con la sua cotta di maglia di ferro e il suo turbante, ma senza elmo né armi.
Domenico indietreggiò ancora di qualche passo, trattenendo il fiato, poi si voltò e prese a correre a gambe levate. Si arrampicò per la scarpata aggrappandosi con le mani e con i piedi, attraversò Porta da Sole, raggiunse la sua casa, spalancò la porta e si lasciò cadere trafelato su una sedia. La moglie, che era già a letto, lo raggiunse.
- Che sci fatto, Meneco? Pare che sci visto ’rdiaulu! - gli chiese vedendolo in quello stato.
(Che hai fatto, Domenico, sembra che tu abbia visto il diavolo!)
- Pegghio, Filomena, pegghio!
(Peggio, Filomena, peggio!)
- Allora sci visto l’esattore de le tasse!
(Allora hai visto l’esattore delle tasse!)
- Pegghio, pegghio!
(Peggio! Peggio!)
- Pegghio? Inzomma, chi sci visto, Domé?
(Peggio? Insomma, chi hai visto, Domenico?)
- Un fantasma!- sussurrò l’uomo, quasi avesse paura anche solo a pronunciare quella parola.
- Ma vanne ’mbo’ - replicò la moglie - me sa che stasera sci viuto un vecchié de troppo! - e se ne tornò di là.
(Ma vattene! Secondo me, stasera tu hai bevuto un bicchiere di troppo!)
Domenico si sentì scuotere la sedia.
- Fermete, Filomè! Statte fitta! -supplicò.
(Fermati, Filomena! Stai ferma!)
- Ma co’ chi ce l’hai? No mme mòo de co’! - gli rispose la moglie dall’altra stanza.
(Ma con chi ce l’hai? Non mi muovo affatto!)
Nello stesso momento si sentì sbattere l’uscio di casa.
Domenico balzò dalla sedia e sentì i capelli rizzarglisi in testa.
- E’ vinutu pure ecco! E’ vinutu pure ecco! - ripeteva tremando.
(E’ venuto aanche qui!)
La moglie tornò da lui e cercò di tranquillizzarlo:
-Daje, venne a durmì; po’ esse che ogghi non si digerito la minestra de cavulu; venne, su, vedrai che co’ ‘na bella durmita te se passa tutto. - E lo accompagnò a letto.
(Dai, vieni a dormire; forse oggi non hai digerito la minestra di cavoli; vieni, su, vedrai che con una bella dormita ti passa tutto.)
Il giorno seguente Domenico riferì l’accaduto a Mastro Antonio e ai compagni di lavoro, ma non gli credettero neanche loro. Il pover’uomo si convinse di aver avutoun’allucinazione e si mise l’animo in pace.
Fra gli operai c’era anche un giovane garzone, Felice, un ragazzo scaltro e impavido, dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini.
Incuriosito dal racconto di Domenico, appena fu buio, Felice andò alla fonte di Aspramonte e aspettò.
Dopo un po’ che era lì, lo spettro apparve. Il ragazzo era più stupito che spaventato. Il fantasma gli si avvicinava sempre più, ma lui non si mosse.
- Chi scì? - chiese quando gli fu davanti.
(Chi sei?)
- Sono Almonte° - disse l’ombra con voce d’oltretomba,autoritaria.
- Ne saccio quante pprima! - replicò Felice.
(Ne so quanto prima!)
- Sono il re dei saraceni che combatterono contro i cristiani di Carlo Magno - spiegò Almonte - Qui Orlando mi ha ucciso e ha preso il mio elmo fatato. Sono quasi ottocento anni che vago in questa campagna; ora è tempo che me ne vada, che trovi la mia pace, ma prima devo ritrovare il mio elmo.
- E come fai a rtroallu ecco? Chisà do’ è ghitu a finì! - osservò Felice.
(E come fai a ritrovarlo, qui? Chissà dov’è finito!)
- Devi sapere, ragazzo, che ad Orlando lo sottrasse un altro saraceno, e a lui un altro ancora, e un altro ancora…L’ultimo soldato che lo indossò fu uno dei turchi che invasero l’Albaniailsecoloscorso e lo perse in battaglia. Lo trovò un povero contadino, Zef, che lo portò con sé quando emigrò in questa terra, ma a quel punto l’ho perso di vista. So solo che è stato sotterrato da qualche parte, ma non so precisamente dove.
Tu sei l’unico con cui sono riuscito a parlare; se mi aiuti a ritrovare l’elmo ti assicuro che non te ne pentirai, anzi, ne riceverai un beneficio.
Felice aveva ascoltato con interesse il racconto di Almonte e alla richiesta del fantasma rispose pronto:
- Va vè. Ma che devo fa’, scavà busce tutte le notte? Ce putrìo mette jec’anni!
(Va bene. Ma che devo fare, scavare buche tutte le notti? Potrei impiegarci dieci anni!)
- Per cominciare potresti chiedere agli arbereschi[i] del posto se ricordano un tale di nome Zef - propose Almonte
- Va vè - ripeté il ragazzo - ma addè vaco via. Se me servecheccò, do’ te tròo? -
(Va bene, ma adesso vado via. Se mi serve qualcosa, dove ti trovo?)
- Quando servirà, mi farò VIVO io!Ah, ah, ah, ah..…- Eridendo si dileguò.
L’indomani Felice iniziò lericerche. Dopo il lavoro andò da Leke, un albanese stabilitosi anni prima a Monte Fiore. Abitava ancora in una palombara[ii], ma si stava costruendo una casa nel terreno che coltivava.
Leke sapeva che c’era stato uno Zef a Montotto e forse sapeva anche chi era il nipote. Si sarebbe informato meglio e si impegnò ad accompagnare lui stesso l‘amico, la domenica successiva, da quella persona.
Leke conosceva bene Felice: quando era arrivato al paese si era sentito un po’ emarginato, come tutti i suoi connazionali, del resto, ma Felice e la sua famiglia loavevano accolto con simpatia e aiutato con generosità.
Gli albanesi e gli slavi che arrivavano continuamente nel comune erano malvisti, anche se non toglievano nienteanessuno,perchési dedicavano al lavoro dei campi o all’allevamento del bestiame, mestieri che molti abitanti del posto non volevano più fare, perchépreferivano trasferirsi in paese e svolgere lavori artigianali.
- Allora a rvengo domeneca - disse Felice andandosene.
(Allora torno domenica)
In quei giorni, dopo il lavoro nella chiesa, Domenico andava ad aiutare un conoscente a fare dei piccoli lavori e passava davanti al grotto[iii] in cui viveva una vecchia, che tutti chiamavano “la sdrolleca”.
Ogni volta che lo vedeva, la vecchia gli diceva
La pigna a lu moru
A lu rusciu l’oru
Laprimavoltachesentì queste parole,Domenico non diede loro peso, ma già la seconda volta cominciò a chiedersi cosapotessero significare. La “pigna non gli diceva nulla, perché, non avendo parlato col fantasma, non sapeva dell’elmo, ma la parola “rusciu” gli fece subito pensare a Felice, che era l’unico rosso che conosceva. Non sapeva cosa c’entrasse l’oro, ma il fatto che fosse attribuito a Felice, lo mise in sospetto e suscitò inluiunpo’ di invidia verso quel ragazzo benvoluto da tutti. La domenica raccontò il fatto alla moglie, poi chiese:
- Che vorrà di’ ?
(Che vorrà dire?)
- No lo saccio - gli rispose lei - de mori ce ne sta tanti, ma de rusciu,io conoscio solo a Felice. Che oro dovrà pijà, ‘n’eredità? Sa’ che faccio? Addè vaco a la messa,cuscì domanno in gniro.
(Non lo so, di mori ce ne sono tanti, ma di rossi, io conosco solo Felice. Quale oro dovrà prendere, una eredità? Sai cosa faccio? Adesso vado a Messa così domando in giro.)
Prese uno scialle e uscì. Tornò circa un’ora dopo trafelata e, appena entrata, chiamò il marito:
- Domé, Domé! Devi ji’ a Montotto! Subbeto!
- Ma a fa’ che? - Domenico, allarmato, pensò fosse successo qualcosa di grave.
- No lo saccio, ma so sintito che ogghi Leke, l’albanese, a ’ccompagna Felice a Montotto, a troà lu nipote de unu che se chiamava Zef e…
- Eeeeh, chisà che me parìa!…. Ma io che rrentro? - fece Domenico tranquillizzandosi.
- …echeccosa me dice che ce devi ji’! Devi sapenne de più! Se ci stade menzo l‘oro, non putimo lasciàllu a un vardasciu che se la rfa’ co’ tutti l’arbereschi! Vanne, damme retta, vanne! - concluse Filomena, spingendolo verso la porta.
- E va vè, vaco, vaco, sennò sai quanno la porti a la longa!
( - Domenico, Domenico! Devi andare a Montotto! Subito!
- A fare cosa?
-Non lo so, ma ho sentito che oggi Leke, l’albanese, accompagna Felice a Montotto, a trovare il nipote di un tale che si chiamava Zef e…
- Eeeeh, chissà che credevo! Ma io cosa c’entro?
- …e qualcosa mi dice che devi andarci! Devi saperne di più! Se c’è di mezzo l’oro, non possiamo lasciarlo ad un ragazzo che va d’accordo con tutti gli arbereschi! Vai, dammi retta, vai!
- E va bene, vado, vado, altrimenti sai quanto la porti per le lunghe!)
ComealsolitoDomenicol’accontentò, altrimenti non gli avrebbe dato pace. Attraversato l’Aso, chiese a un contadino di indicargli la casa che cercava. Una volta arrivato a destinazione, si accorse che Felice e Leke lo avevano preceduto e stavano già entrando nella casa.
Si nascose allora dietro ad una finestra socchiusa, sbirciò dentro e ascoltò.
Un vecchio era a letto e sembrava molto malato. Continuava a ripetere:
- Vojo un prete,… vojo diventà cristianu,… vojo un prete….
- Vaco a chiama lu pioà - disse Leke.
- None, è inutile - intervenne la giovane nipote che assisteva il vecchio - lu pioà non se occupa più de la parrocchia, e mango lu prevostu de monte Rubbià: ha fatto quistiò fra de loro[iv].Lu Vicariu ha ditto de chiamà lu priore de li Carmelitani,ammò duvrìa rrià -
(- Voglio un prete…voglio diventare cristiano..voglio un prete…
- Vado a chiamare il pievano.
- No, è inutile, il pievano non si occupa più della parrocchia, e nemmeno il prevosto di monte Rubbiano: hanno litigato fra loro. Il Vicario ha detto di chiamare il priore dei carmelitani; dovrebbe arrivare a momenti.)
Felicespiegò al malato perché era lì, ma il vecchio disse che avrebbe parlato solo dopo la conversione e i sacramenti. Leke salutò e se ne tornò a casa, Felice aspettò in silenzio, insieme alla ragazzina. Domenico, fuori, fremeva; temeva di essere visto da qualcuno.
Per fortuna cominciava a far buio. Finalmente il frate arrivò; accolse la richiesta dell’albanese e, una volta andatosene, il vecchio parlò al ragazzo:
- Quillu che cerchi sta sotto la cerqua grossa de lu “campu de contra“[v], quillu chefu vennutu a monte Fiore tant’anni fa. Lu Zef che c’haìa l’elmu,adèra nonnu; io ero ciucu, ma me rrecordo ancora ’lla pigna nira: mamma la doprava pe’ coce lu farru. Dopo mpo’d’anni che stamo qua, l’affari ha ‘ngumingiato a ji’ be’, anche grazie a ‘n’amicu ebreu, e nonnu la doprò pe’‘bbuscacce le monete d’oro.
Po’ è rriata la peste, e s’ha portato via tutti; c’ero rmastu solo io. Secondo nonnu era colpa de l’elmu, dicìa che era malidittu, cuscì l’ha sotterratu co’ tutti li sòrdi, dicenno che no nne vulìa sapé più cosa, purché io me fosci sarvatu: e cuscì è statu.‘Lla pigna è rmasta sempre là sotto la cerqua; pijala, rdalla a lu patrò, cuscì pure io me ne posso jì’ in pace.
(Quello che cerchi si trova sotto la quercia grandee del campo “di fronte”, quello che fu venduto a monte Fiore tanti anni fa. Lo Zef che aveva l’elmo era mio nonno; io ero piccolo, ma mi ricordo ancora quella pentola nera: la mamma la usava per cuocere il farro. Dopo alcuni anni che eravamo qua, gli affari hanno cominciato ad andare bene, anche grazie ad un amico ebreo, e il nonno la usò per nasconderci le monete d’oro. Poi è arrivata la peste, e si è portata via tutti: c’ero rimasto solo io. Secondo il nonno era colpa dell’elmo, diceve che era maledetto, così lo sotterrò insieme alle monete, dicendo che non ne voleva più sapere, purchè io mi fossi salvato: e così fu. Quella pentola è rimasta sempre là, sotto alla quercia; prendila, ridalla al suo proprietario, così anch’io me ne posso andare in pace.)
Felice ringraziò,lasciò il vecchio alle caritatevolicuredellanipote e si avviò verso la quercia menzionata.
Naturalmente Domenico lo aveva preceduto: appena aveva sentito indicare il posto, ci si era recato e aveva cominciato a scavare, con una pala presa nell’aia della casa. Scavò due o tre buche, prima di trovare il posto giusto, e alla fine vide il famoso elmo con le monete d’oro. Ma….non aveva fatto i conti con Almonte! Almonte era un re, e un re mantiene sempre la parola data: aveva promesso la ricompensa a Felice e adesso non poteva permettere che un cialtrone qualunque mettesse le mani su quell’oro e, soprattutto, sul suo elmo. Sbucò da dietro la quercia svolazzando e ululando a più non posso. Domenico si sentì gelare ìl sangue, gettò via le monete che aveva in mano e scappò più veloce che poté.
Quando arrivò,Felicetrovòil lavoro già svolto.
Almonte gli spiegò cosa era accaduto.
- Prenditi l’oro - gli disse infine - e dammi l’elmo.
Felice si infilò le monete nelle tasche e nella camicia, poi consegnò l’elmo ad Almonte, che lo indossò soddisfatto.
- Finalmente posso andarmene in pace, Addio, ragazzo! Sii….FELICE! Ah, ah, ah! Ah, ah, ah!….
E si allontanò dissolvendosi.
° Secondo gli studi e le ricerche del prof. don Giovanni Carnevale, le Marche erano il centro dell’impero di Carlo Magno,
la cui capitale sarebbe stata San Claudio al Chienti. Alla luce di questa teoria, quindi, la battaglia di Aspromonte si sarebbe veramente svolta nella piana di Montefiore, come finora tramandato dalla leggenda.
[i] Arbereschi: così si chiamarono gli albanesi che si stabilirono in Italia.
[ii] Palombara: costruzione a forma di torre usata per l’allevamento dei piccioni. Inizialmente serviva da rimessa degli attrezzi agricoli e come primo rifugio del contadino prima della costruzione della vera e propria casa colonica. Nel territorio di Montefiore sono ancora presenti alcuni esempi di queste costruzioni.
[iii] Grotti: sono grotte che si aprono sul costone della collina, risalenti al I sec. d. C., visibili ancora oggi. Probabilmente servivano per conservare le urne cinerarie. Nel corso dei secolihanno perso la funzione sacra e sono stati addirittura abitati fino ai primi anni del Novecento.
[iv] La lite fra il Prevosto e il Pievano di Monterubbiano era insorta per ragioni di competenza della cura delle anime della Villa di Montotto.e.si protrasse per alcuni anni. Richiese l’intervento della Curia e si concluse dopo ben due processi con l’attribuzionedella competenza al Prevosto e la condanna del Pievano al pagamento di tutte le spese.
[v] Il campo “de contra”, cioè di fronte, è il campo che il Comune di Monterubbiano fu costretto a vendere al Comune di Montefiore per un prezzo esiguo, a causa degli ingenti debiti contratti con gli ebrei.