Il fantasma di Isabella di Morra: non c’è pace per la poetessa assassinata con cento coltellate dai suoi fratelli

Creato il 15 marzo 2014 da Alessiamocci

Fantasmi, anime in pena con alle spalle un’esistenza prematuramente spezzata, il più delle volte in modo cruento. Le leggende popolari li vogliono sovente vaganti tra ciò che resta di vetusti torrioni e ruderi di castelli abbandonati.

Eccola, nel timido, bluastro riverbero della luna: sembra di scorgerla, la poetessa Isabella di Morra, che nel 1545, neanche venticinquenne, venne barbaramente assassinata da tre dei suoi sette fratelli, con cento coltellate. La tragedia si consumò tra le inorridite mura del castello semidiroccato di Valsinni (Matera).

«Isabella Morra venne ammazzata per biechi motivi di onore, e in ragione di un semplice sospetto», racconta Erminio Truncellito, cantastorie del Parco letterario dedicato alla poetessa (d’estate, ogni giorno, ne sceneggia la vita tra i vicoli dell’antico borgo, medievale, per i turisti).

«Decio, Fabio e Cesare, tre dei fratelli di Isabella decisero di eliminare la sorella, quando seppero che la poverina mandava regolarmente lettere al nobiluomo Diego Sandoval De Castro, signore del vicino feudo di Bollita (l’attuale Nova Siri), nonché governatore di Taranto. 

Sandoval, sposato e con figli, come la Morra componeva sonetti di ispirazione petrarchesca. Comprensibile che, in un “borgo selvaggio”, fuori dal mondo, rozzo e privo di cenacoli letterari come era questo, due poeti si attraessero, sentissero il bisogno di confrontarsi e ispirarsi reciprocamente. A quei tempi, quaggiù, la vita era dura davvero per le donne. Un po’ come certe contemporanee di religione musulmana, le nostre antenate non potevano rivolgere la parola a nessuno, se non in presenza dei familiari», ci informa Truncellito.

«Non si poteva concepire che una fanciulla, seppure colta e di alto lignaggio come la discendente normanna Isabella, intrattenesse una relazione, anche solo epistolare, con uno sconosciuto padre di famiglia, per di più spagnolo! Già. Sandoval, castigliano, avrebbe dovuto essere un nemico naturale per ognuno dei Morra, tutti filofrancesi.

Erano alleati di Francesco I, i familiari di Isabella: appoggiavano quel re, in guerra anche nel Meridione contro le truppe spagnole di Carlo V. L’incauta, giovane Isabella, entusiasta del suo nuovo amico e ignara della ragion di Stato, fu così massacrata dagli avidi consanguinei, che si spartirono subito la sua dote.

Mai si è saputo dove fu sepolta, quest’anima gentile la cui fine commosse anche il grande Benedetto Croce. Venne fin qui, nel 1928, il celebre letterato, inutilmente cercando, tra le rovine del castello dei Morra, i resti di quella poetessa di cui ammirava l’immediatezza lirica, l’estrema femminilità del verso “appassionato e personalissimo”.

Nessuno sa dove riposi l’autrice dei “fieri assalti di crudel fortuna” e di “scrissi con stile amaro, aspro e dolente”. Tra i vecchi, qualcuno dice di vederla, nelle notti di luna piena, mentre scalza, la lunga veste bianca, aleggia leggera, quasi un gioco di luce tra i vapori pigri del “suo fiume”.

Questo “torbido Siri” (o Sinni) che tante canzoni ispirò a quella fanciulla solitaria e tristissima, una sorta di Leopardi dai lunghi capelli biondi, che al fiume, come ad un amico, affidava le sue tante lacrime e delusioni».

E, come il poeta di Recanati, anche Isabella di Morra trova conforto alla sua disperazione esistenziale nella natura, alla quale rivolge le sue fantasie e il suo enorme bisogno di affetto. Quella stessa natura dove,ancor oggi, troverebbe rifugio il fantasma di Isabella. Dal boscoso monte Coppola, la Morra contemplava le acque dello Ionio, fantasticava la libertà e l’amore che mai avrebbe potuto, in questa vita, conoscere.

Da un dosso, all’improvviso, compaiono le ginestre, fiori tanto cari alla letterata, e che tre secoli più tardi ispireranno il Leopardi: si allineano folte, ondeggiano nel vento come un allegro oceano giallo, anche loro raccontano la triste storia di Isabella. Come la siepe dell’infinito, anche questi cespugli aprono lo sguardo su orridi a picco, che vertiginosamente precipitano verso la vallata. Anche qui, in certe limpide notti d’agosto, c’è chi crede di udire il lamento di quell’anima angosciata. Angosciata, certo. Triste. Tormentata.

E questo fu il più grande cruccio della poetessa lucana: la perdita di quel genitore, Giovanni Michele Morra, che lasciò Valsinni quando Isabella aveva appena otto anni, andandosene in esilio in Francia, dove fu costretto da ragioni politiche. Dalla cima del monte Coppola, la figlia del barone Morra continuò sempre ad aspettarlo, quel padre idealizzato, che a Parigi si era rifatto una vita, non curandosi di lei.

Dramma edipico? Anche, ma non solo. Anzitutto è un dramma reale, presente, almeno per la povera Isabella, al di là di qualsiasi riflessione successiva. A Valsinni (casualità..?) vive quello che forse è l’ultimo vero mago, il figlio del mitico zi’ Giuseppe, lo sciamano raccontato in tanti libri dall’antropologo Ernesto De Martino.

Zi’ Giuseppe curava le isterie, le depressioni, guariva dalle allucinazioni, senza psicofarmaci, in cambio di un capretto o di qualche uovo. Per calmare i nervi usava erbe come tarassaco, ginepro, biancospino, pervinca, borragine.

Written by Alberto Rossignoli

Fonte

Oggi, Gabriella Montali, “Qui, da 500 anni, la baronessa infelice scrive versi d’amore”


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