Il favoloso cappotto di Proust

Creato il 10 dicembre 2010 da Fabry2010

di Mauro Baldrati

Coi primi di dicembre, e l’avvento del grande freddo, apro l’armadio del vestibolo dove ci sono i reperti speciali e prendo il mio antico parka, quello extra-large che ho comprato a Brooklin nei primi anni Novanta. E’ il capo di vestiario più favoloso che abbia mai posseduto, di colore grigio scuro, confezionato con una tela militare robusta con le cuciture nere, ben fatto, ben proporzionato, bene imbottito, non come quei giacconi da 500 euro che vanno di moda oggi che sembrano imbottiti con dei copertoni. Lo pagai poco, come si usava a New York, trenta dollari, e l’ho portato fino allo sfinimento e ci ho pure dormito dentro un paio di volte.
Lo indosso lentamente, con cura, lo manipolo come farei col cappotto di Proust, perché è un oggetto prezioso, unico. E sarà che ho messo su qualche chiletto, sarà per gli esercizi coi pesi che faccio ogni mattina che hanno potenziato la forza espansiva del mio gesticolare, fatto sta che sento un suono sinistro, minaccioso. Guardo con apprensione e lo vedo: uno sbrego che parte dall’ascella e arriva fino quasi alla tasca. Un tuffo al cuore. Doveva accadere, primo o poi. Nulla è eterno. Per fortuna non è uno strappo, ma una scucitura. Riparabile quindi. Già, ma da chi? La mia cara zia Pia, che ha confezionato le leggendarie camicie copiate da quelle di Jimi Hendrix, è su una sedia a rotelle. Esistono ancora i sarti? Sì, qualcuno esiste: mi viene in mente il piccolo laboratorio sulla provinciale, a tre o quattro fermate di autobus da qui. Ci abbiamo già portato qualche pantalone e una giacca.
Così cerco una borsa ampia, metto dentro il parka accuratamente piegato e vado dalla signora.

E’ seduta alla macchina da cucire, e impiega almeno un minuto prima di alzarsi per venire al banco. E’ una signora di circa sessant’anni, con gli occhiali sulla punta del naso, alcuni fili di cotone chiaro appiccicati alla maglia di lana, particolare, questo, che ho sempre notato di lei. Guarda con aria stanca il parka, dice “eh.” Le chiedo con ansia se si può mettere a posto. Lei ripete “eh”, poi annuisce rassegnata. Alquanto sollevato le chiedo se può farlo e quanto sarà la spesa. Allora lei assume un’aria sofferente, crolla il capo e dice, col tono di chi si impietosisce di fronte alle sventure altrui: “saranno venti euro.” Ecco. E’ una cucitura che con la macchina giusta si fa in circa cinque minuti, ma per il parka questo e altro. Dico che va bene e le chiedo quando sarà pronto. Lei aumenta la sua già palese sofferenza, che sembra diventare vera e propria disperazione e fa: “non prima del 2 gennaio.”
Rimango stecchito. Un me-e-se? Per una cucitura? Le chiedo, la supplico di consegnarmelo prima, tipo fra una settimana, ma lei allarga le braccia come per dire guardi qua e fa: “impossibile.”
Pietà l’è morta. Inutile insistere, lo so. Quando vogliono le donne sanno essere dure come l’acciaio inox. Così mi riprendo il parka ed esco dal laboratorio.

E ora? Devo risolvere, tipo in un negozio di abbigliamento, hanno sempre delle dritte coi sarti. Chiederanno trenta euro, ma almeno faranno il lavoro in una settimana. Metti anche due, ma non un mese!
Poi ho un flash: il negozio dei cinesi, ci passo spesso davanti, un ex laboratorio di elettrauto stipato di oggetti di ogni tipo, borse, ombrelli, sedie, cinture, vasi, piatti, e abbigliamento. E’ qui vicino, voglio tentare. Per il parka questo e altro.
Mi accoglie una signora di età indefinibile, sorridente e gentile, ma con una faccia impenetrabile come lo sono, per me, le facce degli orientali. Le mostro il parka. Lei lo esamina con una cura che mi sorprende, lo tocca, studia il filo delle cuciture, poi dice “sì, posso farlo.” Di nuovo mi sento sollevato. Le chiedo quanto sarà la spesa. Sono pronto a tutto. Lei non mi guarda negli occhi, parla fissando il parka, come se si sentisse in colpa: “devo chiederle due euro.”
Deve. Si sta scusando. Due euro per una cucitura, mi sta confessando che è troppo. Dico che va bene, va benissimo, vorrei abbracciarla, e le chiedo, con la tensione che già mi attanaglia la schiena, quando sarà pronto. Di nuovo parla fissando il parka, con tono colpevole: “oggi proprio non ce la faccio. Ma domattina è pronto.”
Si può abbracciare una signora sconosciuta? Si può baciare? Esco dal negozio col morale alle stelle.

La mattina prima di andare al lavoro passo dal negozio, che apre alle sette e trenta (e spesso alla sera alle nove è ancora aperto) e ritiro il parka. Il lavoro è perfetto. E’ sempre lui, il mio favoloso cappotto proustiano. Lo indosso lentamente, con voluttà. Sento scorrere il me l’antica energia newyorkese, l’antico ottimismo. Mi sento in forma straordinaria.
Faccio per pagare e vedo, con meraviglia, lo scontrino sul banco. Uno scontrino fiscale da 2 euro. Lo tengo in mano come un oggetto straordinario. Credo che lo metterò in cornice.

In strada penso che è ora di tagliarmi i capelli. Mi viene la paranoia appena oltrepassano la frazione di millimetro a loro consentita. Fino all’anno scorso andavo da un barbiere anziano, che usava la macchinetta elettrica, una specie di rasoio, e faceva il semplice, deciso taglio militare che voglio (se non si è capito io adoro lo stile militare in tutti i suoi aspetti) per 14 euro. Ovviamente senza ricevuta. Ma da un anno vado da un pachistano che usa lo stesso tipo di macchinetta e chiede nove euro. Con ricevuta.

Forse questi episodi hanno una valenza simbolica, qualcosa di simile alle metafore, ma il potere dei simboli va combattuto, perché ci opprime da secoli. I simboli in Kafka. I simboli in Proust. I simboli della rinascita. I simboli della lotta. I simboli dell’evasione fiscale. I simboli della deriva di un popolo.

Sono un tipo materiale, ho dei pensieri materiali, cerco cose materiali. Come il parka, che mi protegge come un accappatoio caldo.

Il favoloso cappotto di Proust.



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