La talpa, Iris, ore 21,00.
La Talpa (Tinker, Tailor, Soldier, Spy) di Tomas Alfredson.
Con Gary Oldman, Colin Firth, Tom Hardy, John Hurt.
Ora, cosa mai avrà spinto i produttori a investire in questo spionistico dal sapore vintage, tutto un sospettare e sorvegliare e pedinare e punire a ritmi lentissimi, adesso che il paradigma della spy-story è Bourne, cioè massima velocità e adrenalina? Dove andrà a pescare il suo pubblico questo pur nobile e impeccabilmente confezionato Tinker, Tailor, Soldier, Spy, oggi che il consumatore di popcorn dei multiplex se non vede laghi di sangue e qualche decina di morti nella prima mezz’ora diserta e molla il colpo? Cos’è, un’operazione filologica che intende far rivivere la spy-story com’era e come non è più? Non capisco, non ho capito. Sarà che non ho mai amato John Le Carré e prodotti derivati (a parte La spia che venne dal freddo girato molto, molto tempo fa da Martin Ritt), non ho mai amato, intendo, le sue giravolte e le sue circonvoluzioni e tortuosità, i doppi e tripli e quadrupli giochi, i colpi e controcolpi di scena, la verità che signora mia non è mai quella che appare e che forse non esiste proprio, e poi tutta la retorica dello spionaggio ai tempi della guerra fredda che tra Ovest e Est ci si combatteva senza esclusioni di colpi ma in fondo rispettandosi, mica come adesso che tutti giocano sporco e al massacro. Si sarà capito che questo Tinker ecc., che poi è La talpa (così si chiama in italiano il romanzo di Le Carré da cui è tratto) non è proprio il mio film preferito di questo festival. Mi sono impegnato, ho cercato di farmelo piacere, di apprezzare le atmosfere ambigue, l’aura british, l’ecellenza degli attori altrettanto british, le ombre e le penombre in cui il regista svedese Tomas Alfredson (quello del film etno-adolescenzial-vampiresco Lasciami entrare) immerge la vicenda, ma non ce l’ho fatta. Troppo contorta questa storia, così contorta da essere quasi incomprensibile, e pochissimo appassionante, nonostante che il libro sia considerato un capolavoro del genere. Quanto allo stile adottato da Alfredson mi pare guardi, più che alle grandi spy-stories classiche degli anni Sessanta come appunto La spia che venne dal freddo di Martin Ritt o il meraviglioso Ipcress File con Michael Caine, al recente Le vite degli altri del tedesco Florian Henckel von Donnersmarck, temo uno dei film più sopravvalutati degli ultimi anni. Toni lividi e plumbei, spie dalla faccia qualunque e senza il minimo appeal, ambienti disadorni, luci basse. Film, come dire, di qualità indiscutibile, Tinker ecc., ma di una noia asfissiante. La storia, per i cultori del genere, è abbastanza nota. Primi anni Settanta. La spia dalla faccia qualunque e dall’onorata carriera George Smiley (siamo in Gran Bretagna, dunque si parla di servizi segreti di Sua Maestà) è stato pensionato. Ma si sospetta che i sovietici abbiano infiltrato nell’apparato dei servizi inglesi, e ai massimi livelli, una talpa. Sicché Smiley viene richiamato al lavoro perché con la sua abilità la individui e neutralizzi. Mica facile. C’è davvero la talpa o sono gli stessi sovietici che per qualche oscuro motivo vogliono farlo credere? Tutti sospettano di tutti, tutti sono ambigui, tutti potrebbero fare il doppio gioco, e forse lo fanno. Si parte con una missione andata male in quel di Budapest, si prosegue naturalmente a Londra, epicentro della vicenda, tra agenti spediti all’estero e richiamati in patria, est europei non si capisce più al soldo di chi, filoamericani e antiamericani. Un verminaio. Escursioni a Istanbul e Parigi, il che ci consente di ammirare un po’ di Bosforo e un po’ di Senna.
Non provo nemmeno a raccontare una parte della vicenda, tutto è così complicato da far venire il mal di testa. Agenti, controagenti, traditori da una parte e dall’altra. Sovietici all’occorrenza crudelissimi e spietati. Morti disseminati in mezza Europa. Di abbastanza nuovo rispetto ai film analoghi dei tempi della guerra fredda è che stavolta le scene all’est sono state girate all’est, Budapest è davvero Budapest, mica come allora che non si poteva e per ambientare una sequenza oltre la cortina di ferro si doveva andare a Zagabria o Lubiana spacciandole per Praga o Mosca o Bucarest, che lì gli jugoslavi non allineati permettevano alle troupe occidentali di girare.
La talpa comunque alla fine viene scoperta, e il buon Smiley fa un saltone di carriera. Uno di quei film, Tinker ecc., che o riescono a ipnotizzarti e avvolgerti nelle loro spire, o ti lasciano indifferente. A me è capitata la seconda: sorry. Gli attori sono attori inglesi, dunque bravissimi per definizione. Gary Oldman è uno Smiley perfetto e un po’ laido (lui lo è sempre un po’), John Hurt gigioneggia alla grandissima, l’oscarizzato Colin Firth fa stranamente una piccola parte, poco più che un cameo, e non si capisce perché. Chi (come me) ha apprezzato il formidabile Bronson di Nicolas Winding Refn sappia che qui ne ritroverà il protagonista, Tom Hardy.