Il futuro della Bosnia-Erzegovina: tra divisioni interne e problemi contingenti

Creato il 01 febbraio 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Martina Franco

Ci sono voluti quasi quindici mesi, il tempo trascorso dalle ultime elezioni parlamentari – e presidenziali –, affinché i principali partiti politici della Bosnia-Erzegovina si accordassero circa la formazione del nuovo governo. Un periodo nel quale i problemi intrinseci di un Paese il cui ordinamento statale si regge su una struttura amministrativa arzigogolata e di difficile applicazione, e la crisi economica contingente sono stati aggravati dalla mancanza di una guida e dalle divisioni in seno alla classe politica. In base all’accordo raggiunto tra le sei principali formazioni politiche lo scorso 28 dicembre, il nuovo Premier del Paese balcanico sarà Vjekoslav Bevanda, economista e membro dell’Unione Democratica Croata di Bosnia-Erzegovina (HDZ-BiH), incaricato di formare il nuovo Consiglio dei Ministri e sottoporlo poi all’approvazione dell’organo legislativo nazionale.

Le elezioni dell’ottobre 2010

Le consultazioni elettorali dell’ottobre 2010 non hanno prodotto una maggioranza assoluta, sancendo l’assegnazione di otto seggi, sui 42 totali della Camera dei Rappresentanti, al partito socialdemocratico di Bosnia-Erzegovina (SDP), multietnico e appartenente al Partito Socialista Europeo; altrettanti sono stati assegnati all’Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD), formazione che rappresenta i serbi della Bosnia-Erzegovina. Di poco inferiori sono state le preferenze accordate dagli elettori al Partito d‘Azione democratica, espressione della comunità bosgnacca (bosniaco-musulmana) e schierato su posizioni di matrice nazional-conservatrice, che ha ottenuto sette seggi.

L’eguale rappresentanza dei popoli

Sulla costituzione di una coalizione di governo, resa necessaria dall’esito delle elezioni, i partiti politici si sono confrontati più volte nel corso di una serie di incontri terminati in un sostanziale nulla di fatto. La maggiore difficoltà è stata quella di giungere ad una visione condivisa sul tema della distribuzione delle cariche, soprattutto tra le formazioni croate ed il partito multietnico SDP. Un disaccordo originato dalle complesse previsioni costituzionali che impongono l’eguale rappresentanza delle tre etnie principali, punto sul quale non esiste un’interpretazione unanimemente condivisa. Si tratta di una questione ben nota nel Paese balcanico, dove il principio della rappresentanza dei popoli si è posto ripetutamente, ad esempio in occasione della rielezionedi Želiko Komšič a membro della Presidenza tripartita, in rappresentanza dell’etnia croata[1]. In questo caso l’oggetto della discordia tra le compagini partitiche croate e bosgnacche, è rappresentato dal fatto che Komšič non sarebbe rappresentativo della comunità croata, in quanto eletto nelle file del partito multietnico SDP da un elettorato presumibilmente appartenente per lo più all’etnia bosgnacca. Un nodo di difficile soluzione, considerato che le differenze di vedute in merito a questi aspetti sottendono divergenze profonde, tali che il dibattito politico in Bosnia-Erzegovina stenta ad uscire dagli schemi della retorica nazionalista.

Un Paese diviso

L’accordo tra i partiti non introduce però niente di nuovo nel sistema politico bosniaco, bensì si situa in linea con la prassi che prevede l’assegnazione degli incarichi governativi su base etnica. L’aspetto meno rassicurante è, in effetti, proprio questo: il fatto che la Bosnia-Erzegovina si confermi ancora una volta un Paese estremamente diviso, nel quale le forze politiche continuano a riferirsi alle rispettive comunità di provenienza.  Le divisioni esistenti tra le varie comunità nazionali sono del resto confermate da una struttura istituzionale estremamente frammentata, all’origine della quale vi è la suddivisione del Paese in due Entità, Federazione di Bosnia-Erzegovina (croato-bosgnacca) e Republika Srpska (serba), ciascuna con propri governi, propri organi legislativi, proprie forze armate e di polizia, e addirittura rispettive dogane e sistemifiscali[2]. Oltretutto, anche a livello geografico il Paese appare estremamente frammentato: il territorio nazionale, infatti, è suddiviso tra le due Entità in maniera tale che numerose sono le enclave ed exclave, tanto che attraversando il Paese si passa continuamente dalla Federazione alla Republika Srpska e viceversa, senza che vi sia continuità trai territori di competenza di ciascuna Entità.

Fonte: Maps of the World

Dunque, di fatto, siamo in presenza di due Stati che convivono all’interno dello Stato centrale di Bosnia-Erzegovina, anch’esso a sua volta dotato di propri organi ed istituzioni.

La paralisi istituzionale a cui il Paese è stato sottoposto in questi mesi è stata, dunque, certamente favorita dall’esistenza di una struttura istituzionale nella quale gli interlocutori sono numerosi e le competenze loro affidate di difficile individuazione si inseriscono in uno scenario caotico che pregiudica il regolare svolgimento del processo decisionale. Basti pensare che ancora oggi la massima autorità dello Stato è costituita dall’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite[3], figura istituita nel 1995 con gli Accordi di Dayton con il compito di supervisionare il mantenimento e l’implementazione del processo di pace.A conferma della mancanza di volontà da parte delle forze politiche di uscire dagli schemi dell’etnocentrismo, si noti che il Primo Ministro designato è espressione del partito HDZ, di orientamento conservatore-nazionalista. Si ricordi altresì che Slavko Kukić, croato del partito SDP, che alle elezioni ottenne una percentuale di voti più elevata rispetto ad HDZ, fu incaricato la scorsa estate di costituire un governo, ma non ottenne la fiducia del Parlamento.

Le priorità del nuovo governo

La nomina di Vjekoslav Bevanda, economista di Mostar, sembra aver posto fine alla crisi politica; tuttavia, il compito che spetterà al nuovo governo, peraltro ancora in via di costituzione ed ancora non sottoposto all’approvazione del Parlamento, non si preannuncia affatto agevole. Numerose sono, infatti, le questioni che richiedono soluzioni immediate e dalle quali dipende il futuro europeo della Bosnia-Erzegovina. La mancanza di un coordinamento centrale, costituito dal governo dello Stato, non ha certamente giovato in questi mesi alla risoluzione dei problemi contingenti che affliggono la Bosnia-Erzegovina, nella quale la situazione economica è quanto mai allarmante e il soddisfacimento degli standard imposti da Bruxelles per un futuro ingresso del Paese nell’Unione Europea ben lungi dall’essere raggiunto.    Guardando ai principali indicatori economici, ciò che risulta particolarmente allarmante è lo stato di stagnazione in cui versa l’economia nazionale, che risente della crisi mondiale e che ha visto, a partire dal 2009, una progressiva riduzione del PIL. La situazione occupazionale è altrettanto critica: la disoccupazione è diffusa soprattutto tra i giovani e nel 2011 ha raggiunto un tasso pari al 27,6%.  In un Paese che dipende ancora in larga misura dai contributi internazionali, in particolare dagli aiuti previsti all’interno del programma europeo IPA (Instrument for Pre Accession) – destinati a Sarajevo in quanto candidato potenziale –, la presenza di un governo centrale coeso è condizione imprescindibile per sperare in un possibile risanamento economico, ma anche per consentire l’avanzamento del processo di adesione all’Unione Europea. Per poter procedere in questa direzione, Bevanda dovrà innanzitutto mettere d’accordo i partiti della sua coalizione sulle misure da intraprendere in ambito economico, ma anche sulla revisione costituzionale imposta al Paese dalla Corte Europea per i Diritti Umani in quanto viola i diritti delle minoranze[4].Urgente è anche l’organizzazione, più volte auspicata da Bruxelles, di un censimento nazionale, mai tenutosi dopo il 1991. Un’agenda densa di priorità, dunque, alle quali si aggiunge, sempre più urgente, la necessità fondamentale di riformare le previsioni costituzionali decise a Dayton, impostando un dialogo politico costruttivo che coinvolga tutte le parti, in modo tale da rispondere alle esigenze concrete ed arginare le forze centrifughe che ancora mettono in discussione l’integrità stessa del Paese. * Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste) 

[1]GliAccordi di pace di Dayton, di cui la Costituzione della Repubblica dellaBosnia-Erzegovina costituisce il IV Allegato, prevedono, infatti, che laPresidenza sia collegiale e venga esercitata a rotazione da tre Presidenti,ciascuno in rappresentanza di un popolo costituente (bosgnacco, croato e serbo).[2] A ciò si aggiunga il Distretto di Brčko, asupervisione internazionale.[3]L’AltoRappresentante delle Nazioni Unite facente anche le funzioni di RappresentanteSpeciale dell’Unione Europea, è incaricato, in base all’Allegato X degliAccordi di Dayton, di garantire il mantenimento della pace.[4] Sitratta del caso “Sejdić e Finci contro Bosnia-Erzegovina”, originato dalricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani da parte di due cittadinibosniaci, rispettivamente di etnia Rom ed ebraica, circa la non compatibilitàdella Costituzione della Bosnia-Erzegovina con la Carta Europea dei DirittiUmani. Sul caso la Corte Europea per i Diritti Umani si è pronunciata con unasentenza datata dicembre 2010. La Costituzione stabilisce, infatti, chesoltanto i cittadini appartenenti ai popoli costituenti – bosniaco, croato eserbo – possano essere eletti negli organi costituzionali.

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