Il futuro della primavera araba - Marco Criscuolo

Creato il 30 novembre 2013 da Andrea Leonelli @AndreaLeonelli
Link all’acquistoAmazonSinossiL’insieme di proteste e rivolte che hanno portato uno sconvolgimento nel Mondo Arabo, la cosiddetta Primavera araba, inizia in Tunisia il 17 dicembre 2010. Quel giorno a Tunisi, il venditore ambulante Mohammed Bouazizi, si da fuoco per protestare contro il sequestro, da parte della polizia, della sua merce. Questo gesto innesca una serie di rivolte popolari e giovanili, che partendo dalla richiesta dei Tunisini delle dimissioni del presidente, Ben Alì, si estendono a molti Paesi Arabi. Le rivolte scaturiscono dalla delusione soprattutto dei giovani, cristiani e musulmani insieme, i quali, scontenti per la mancanza di lavoro, per la libertà limitata o inesistente, chiedono cambiamento, giustizia e libertà. Prima della rivoluzione, in Siria un terzo della popolazione aveva il compito di spiare gli altri, i telefoni erano controllati e ovunque prevaleva un clima di insicurezza. Quando una persona era sospettata veniva presa dalla polizia e torturata. Oggi i giovani sono spi! nti alla ribellione dall’urgenza di libertà e di giustizia, nelle manifestazioni non utilizzano nessuno slogan anti-Americano o anti-Israeliano. L’anelito dei giovani è autentico, ma non organizzato, è privo di programma politico e di fatto non trova strade percorribili. I fondamentalisti Islamici, con il sostegno anche finanziario dell’Arabia Saudita e del Qatar, prendono il sopravvento. A un anno e mezzo dall’inizio delle proteste, in Tunisia è stato cacciato Ben Alì e ora comandano gli Islamisti del partito politico Islamico al-Nahda. In Egitto, dopo la cacciata di Hosni Mubàrak, il Parlamento è dominato dai Fratelli Musulmani del nuovo eletto presidente, Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani. In Libia, in seguito all’uccisione dei ribelli, con l’aiuto della Nato, di Mu’ammar Gheddafi, ha preso il potere il Consiglio Nazionale Transitorio Libico, che non è stato in grado di fermare le scorribande delle bande armate e i desideri di indipendenza della Cirenaica. Le recenti elezioni vedono trionfare come primo partito quello dell’Islamista moderato Jibrìl . In Yemen, da quando il dittatore Saleh ha ceduto il potere nel novembre del 2011, è una pesante battaglia tra il governo provvisorio e i miliziani di al-Qaida, che hanno preso il controllo di alcune città nel sud del paese instaurando la Sharìa, la Legge Coranica. In Siria la situazione è in continua evoluzione, l’esercito dei ribelli dà battaglia al regime di al-Asad ad Aleppo e nella capitale Damasco, dopo due anni di conflitto. Il termine Primavera araba, in arabo al-Thurat al’Arabiyy, letteralmente ribellioni Arabe o rivoluzioni Arabe, è un termine di origine giornalistica, perlopiù usato dai mass media Occidentali per indicare le proteste cominciate durante l’inverno 2010/2011 e in parte tuttora in corso nelle regioni del Medio e Vicino Oriente e del Nord Africa. Le proteste che hanno colpito paesi riconducibili in vario modo all’universo Arabo ma anche esterni a tale circoscrizione come nel caso della Repubblica Islamica dell’Ira! n, hanno in comune l’uso di tecniche di resistenza civile, comprendente scioperi, manifestazioni, marce e cortei, così come l’uso di social network come Facebook e Twitter per organizzare, comunicare e divulgare gli eventi a dispetto dei tentativi di repressione statale. I social network tuttavia non ritengo siano il vero motore della rivolta, credo invece che la moschea e i suq, i mercati, contino assai più di Facebook, Google o delle E.mail. I fattori che portano alle proteste sono numerosi e comprendono, tra le maggiori cause, la corruzione, l’assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e le condizioni di vita molto dure, che, in molti casi, riguardano o rasentano la povertà estrema. Il crescere del prezzo dei generi alimentari sono anche da considerare una delle ragioni principali del malcontento. Le proteste cominciano il 18 dicembre 2010 in seguito alla protesta del tunisino Mohammed Bouazizi che si tramuta nella cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini”. Per le stesse ragioni, un effetto domino si propaga a! d altri paesi del Mondo Arabo. In molti casi i giorni più accesi, o quelli dai quali prende avvio la rivolta, sono chiamati “giorni della rabbia” o con nomi simili. Ad oggi, sono quattro i capi di stati costretti alle dimissioni o alla fuga, in Tunisia Zine El-Abidine Ben Alì il 14 gennaio 2011, in Egitto Hosni Mubàrak l’11 febbraio 2001, in Libia Mu’ammar Gheddafi che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, viene catturato e ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011 e in Yemen Alì Abdullah Saleh il 27 febbraio 2012. I sommovimenti in Tunisia portano il presidente Ben Alì, alla fine di 25 anni di dittatura, alla fuga in Arabia Saudita. In Egitto, le imponenti proteste iniziate il 25 gennaio 2011, dopo 18 giorni di continue dimostrazioni accompagnate da vari episodi di violenza, costringono alle dimissioni, complici anche le pressioni esercitate da Washington, del presidente, dopo trent’anni di potere. Nello stesso periodo, il Re della Giordania, Abdullàh, attua un rimpasto ministeriale e nomina un nuovo ministro, con l’incarico di preparare un piano di vere riforme politiche. Sia l’instabilità portata dalla proteste nella regione mediorientale e nordafricana che le loro profonde implicazioni geopolitiche attirano grande attenzione e preoccupazione nel mondo. Le proteste in Tunisia sembrano iniziare dal basso, dal gesto disperato di un ambulante, il quale si dà fuoco per protestare contro il sequestro, da parte della polizia, della sua merce. Il 27 dicembre 2011 il movimento di protesta si diffonde anche a Tunisi, dove giovani laureati manifestano per le strade della città e vengono colpiti dalla mano pesante della polizia. Nonostante il rimpasto di governo del 29 dicembre, le rivolte nel paese non si placano. Il 13 gennaio il presidente tunisino Ben Alì, in un intervento sulla TV nazionale, si impegna a lasciare il potere nel 2014 e promette che garantirà la libertà di stampa. Il suo discorso però non calma gli animi e le manifestazioni continuano. Meno di un’ora dopo decreta lo stato di emergenza e im! pone il coprifuoco nel Paese. Poco dopo il primo ministro, Mohammed Ghannouchi, dichiara di assumere la carica di presidente ad interim fino alle elezioni anticipate. In serata viene dato l’annuncio che Ben Alì, dopo ventiquattro anni al potere, ha lasciato il Paese alla volta di Gedda in Arabia Saudita. A fine febbraio alcune decine di migliaia di manifestanti si radunano nel centro di Tunisi per chiedere le dimissioni del governo provvisorio, insediatosi dopo la disfatta di Ben Alì. In seguito le ribellioni si diffondono anche in Egitto dove, il 25 gennaio 2011, violenti scontri si sviluppano nel centro della capitale, Il Cairo, causando feriti ed arresti, durante le manifestazioni della “giornata della collera” da opposizione e società civile contro la carenza di lavoro, di libertà e le misure repressive. I manifestanti, contrari al regime del presidente Hosni Mubàrak, invocano la liberazione dei detenuti politici, la liberalizzazione dei mass media e sostengono la rivolta c! ontro la corruzione e i privilegi dell’oligarchia governante. Il 29 gennaio, Mubàrak licenzia il governo e nomina come suo vice l’ex capo dell’intelligence, Omar Suleyman. Proseguono tuttavia gli scontri e le manifestazioni nelle grandi città. Il 5 febbraio intanto si dimette l’esecutivo del Partito Nazionale Democratico di Mubàrak, mentre quest’ultimo, alcuni giorni dopo, delega tutti i suoi poteri a Suleyman. L’11 febbraio il vice presidente annuncia le dimissioni di Mubàrak mentre oltre un milione di persone continuano a manifestare nelle maggiori città del paese. L’Egitto è lasciato nelle mani di una giunta militare, presieduta dal feldmaresciallo Mohammed Hussein Tantawi, in attesa che venga emendata la nuova costituzione e che venga predisposta la convocazione di prossime elezioni presidenziali. Le rivolte coinvolgono anche e inevitabilmente la nazione che si estende tra Egitto e Tunisia, la Libia. Il 16 febbraio 2011 si verificano, nella città di Bengasi, durissimi scontri tra manifestanti, scontenti per l‘arresto di u! n attivi sta dei diritti umani, e la polizia, sostenuta dai militari del governo. Il 17 febbraio si registrano diversi morti in accesi conflitti a Bengasi, città simbolo della rivolta Libica, che intende attuare la cacciata del capo del paese al potere da oltre quarant’anni. Testimoni, vicini ai ribelli, riferiscono, inoltre, che sarebbero avvenute vere e proprie esecuzioni da parte delle forze di polizia. Nella data del 17 febbraio, proclamata la “giornata della collera”, milizie giunte da Tripoli a Beida, nell’est della Libia, colpiscono i manifestanti causando morti e numerosi feriti. Molti dei decessi registrati in Libia risultano concentrati nella sola città di Bengasi, località tradizionalmente poco fedele al leader Libico e più influenzata dalla cultura Islamista. Il 20 febbraio il bilancio delle vittime si avvicina ai 300 morti. Inoltre sembra quasi sicuro che i militari inviati dal regime Libico per reprimere i manifestanti di Bengasi abbiano usato armi pesanti contro le persone riunite davanti al tribunale cittadino, razzi Rpg e armi anti-carro. Il 21 febbraio la rivolta si allarga anche alla capitale Tripoli, dove i contestatori danno fuoco agli edifici pubblici. Nella stessa giornata a Tripoli si fa ricorso a raid dell’aviazione sui manifestanti. Il 21 febbraio cominciano i tradimenti politici, la delegazione Libica all’Onu prende nettamente le distanze dal leader Mu’ammar Gheddafi. Il vice-ambasciatore Libico, Ibrahim Dabbashi , a capo della squadra diplomatica Libica, accusa il colonnello di essere colpevole di “genocidio” e di avere praticato “crimini contro l’umanità”. Il 20 ottobre 2011 Gheddafi viene catturato e ucciso a Sirte. Il suo cadavere riposa vicino a Misurata. Durissima è la situazione in Siria. Le sommosse popolari che interessano numerose città del Paese iniziano il mese di febbraio del 2011 e che assumono connotati violenti sfociando in sanguinosi scontri tra polizia e manifestanti, hanno l’obiettivo di spingere il presidente Siriano Bashàr al-Asad ad attuare le riforme necessarie al fine di dare un’impronta democratica allo stato. In Siria vige una legge del 1963, che impedisce le manifestazioni di piazza. Ma la regia degli scontri ha una base esterna. Alcune potenze straniere sostengono il regime di al-Asad, altre si schierano con i ribelli. Esiste il rischio che la Siria si trasformi in un campo di battaglia fra interessi esterni, estranei alla lotta del popolo Siriano. Chi sostiene la rivolta in realtà sostiene la necessità di rovesciare il regime di al-Asad poiché ciò offrirebbe l’opportunità di allontanare la Siria “dall’asse della resistenza” guidato dall’Iran. Privare l’Iran dell’alleato Siriano contribuirebbe perciò a completare l’accerchiamento del regime Iraniano, indebolendolo politicamente, oltre che economicamente, al punto da aprire lo scenario di un possibile cambio di regime anche a Teheran. Noi sappiamo che questi sostenitori della rivolta sono i paesi Occidentali. D’altro canto Cina, Russia, Iran e Venezuela sostengono il regime! di al-Asad. Il veto Russo-Cinese all’ONU è legato a ragioni interne e ad interessi specifici. In particolare il veto di Pechino è considerato un gesto di solidarietà nei confronti di Mosca contro lo strapotere Americano, più che un segno di aperto appoggio al regime di Damasco. E’ il Cremlino ad avere i maggiori interessi in Siria, perché Damasco è alleato di Mosca nel Mondo Arabo e un importante mercato per l’industria bellica Russa. La Siria, inoltre, ospita l’unica base navale Russa nel Mare Mediterraneo. Chi sostiene il regime lo fa con azioni concrete, dall’invio di navi cariche di armi Russe alla benzina del Venezuela, fino ai mercenari Iraniani all’interno del paese pronti ad uccidere la popolazione inerme per creare terrore. Inoltre il regime Siriano è sostenuto da gruppi e personalità neofascisti e neonazisti Europei. Dall’inizio della rivoluzione, l’esercito di al-Asad ha ucciso più di 600 rifugiati Palestinesi, molti dei quali nel campo Damasceno di Yarmouk, assaltato e bombardato a più riprese. L’Esercito Libero Siriano non può essere sconfitto ma non è in grado di vincere, mentre l’esercito regolare possiede armi di ogni tipo, anche chimiche. Non so come avverrà la svolta, ma la storia insegna che, di fronte alle richieste del popolo, non c’è dittatore che regga. E noi in Italia lo sappiamo beneBiografiaMarco Criscuolo è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale” con specializzazione in lingua e letteratura araba, inoltre ha conseguito il diploma di lingua araba presso l’Università di Tunisi Habib Bourghiba sezione stranieri Nel 1997 vince una borsa di studio della durata di sei mesi offerta dal governo siriano e dal mese di novembre dello stesso anno al mese di maggio 1998 vive a Damasco dove frequenta l’ultimo anno presso l’Istituto di Lingua Araba per Stranieri dove si diploma in lingua araba. Inoltre è laureato anche in lingua e letteratura inglese e possiede certificazione di conoscenza della lingua inglese conseguita al Kaplan International College di Londra. Svariate sono le esperienze lavorative come insegnante e traduttore di lingua araba, È stato referente in Italia per la scuola di lingua araba per stranieri di Damasco To Learn Arabic, una delle migliori scuole in Siria per lo studio della lingua e della cultura araba, e docente di lingua araba presso la Easy Life di Roma nell’ambito del prestigioso progetto europeo PON , in qualità di docente impartisce lezioni di lingua e cultura araba con un’esperienza di oltre dieci anni, lavora come traduttore di testi di letteratura araba e come traduttore di arabo per agenzie di traduzione, enti pubblici e privatiFormato Libro: Ebook
Casa Editrice: Innede Edizioni
Numero Pagine: 111
Prezzo: 7,24

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