Se c’è qualcosa di cui forse devo rimproverarmi è l’aver sempre pensato troppo al futuro.
Cosa farò da grande? Come sarà il mondo domani? Che cosa troverò dopo la scuola? Come sarà, se ci sarà, la mia famiglia, la mia vita, il mio futuro?
Appena potrò permettermelo voglio una grande libreria, in una casa fatta come dico io. Appena ci siamo sistemati col lavoro faremo questo e quest’altro. Quando i bambini saranno più grandi, allora li porteremo in quel posto e anche in quell’altro, dove ci siamo divertiti tanto da giovani.
Tanti domani, tanti progetti, tante fantasticherie, tante speranze.
Il risultato? Che spesso ci si dimentica di vivere il presente.
Da piccolo, la fretta di crescere non era mai abbastanza. Non bastava dire di avere otto o dieci anni: si diceva otto anni e mezzo, o quasi undici, in una fretta di mangiarsi il futuro, prenderlo per la camicia, rallentarlo, illudersi di raggiungerlo.
I quattordici anni per il motorino, i sedici per il patentino, i diciotto per l’automobile, sposarsi per raggiungere l’indipendenza di una vita propria, di una vera famiglia. Chiedersi a che età si diventa uomini per non essere considerati più ragazzi.
Ho sempre pensato al futuro come se fossi immortale, un super eroe della Marvel, che so, un Thor, un Silver Surfer, come se il tempo non passasse per me. Come se l’unica cosa veramente importante fosse ciò che deve ancora accadere e non quello che vivo adesso, ora.
Forse è per questo che, come dice Berlusconi, non mi piace quello che vedo quando mi guardo allo specchio.
Solo ieri ero un ragazzetto insicuro che non sapeva cosa sarebbe stato della propria vita, e oggi, chi è quella faccia coi capelli brizzolati e la barba sale e pepe che mi sta guardando?
Chi mi ha rubato tutto il tempo che sta fra questi estremi? Quello che è successo lo so, ma preso com’ero dal luccicante futuro, ho come l’impressione di non aver sfruttato come si deve un passato spesso remoto.