Trascorrendo dalla geografia fisica da cui prende avvio il suo scrutare, a quella, personale, dell’anima (come accade, in fondo, per ogni degno scrittore), Permunian allestisce un romanzo-zibaldone, un «diario dell’infamia e del disinganno», che trova il suo centro di gravità ancora una volta nel corpo a corpo con i suoi demoni; da «esorcista a rovescio» qual è (così lo definisce, a ragione, Giglioli nella postfazione), li convoca sulla pagina, li chiama a convegno, li immola sull’ara della letteratura, all’incrocio tra menzogna e ri-sentimento, deiezione che promana sempre e comunque dalla vita, secondo quella pratica vampiresca della scrittura, «eterno rimescolio di commedia e tragedia universale», che è ormai il suo marchio di fabbrica. Così come consueto è il brulichio di esistenze, il contorno di figurine tarlate dalla nevrosi: stuolo di puri guastati dalla vita, il cui rifugio non può essere che una calcolata demenza, un patologico (e talvolta salvifico) scarto. E non meno nutrita è, del resto, la cerchia di autorevoli testimoni che chiama in causa come pezze d’appoggio alle sue nevrosi: oltre ai già citati Kafka e Sebald, tra gli altri, mi piace qui segnalare il cammeo dedicato a un grande rimosso come il Sergio Quinzio de La croce e il nulla, figura di scandalosa inattualità, per quel suo disperato bisogno di consolazione e di pace.
Se nel sottoscala del passato, per il nostro, risiede la sola «vera realtà», l’ossessione nostalgica per il tempo perduto dell’infanzia e della giovinezza fa pendant con la non meno ossessiva e irrimediabile promessa di morte annunciata da quegli stessi fantasmi consolatori che viene invocando come suoi numi tutelari. Va detto che il puro dato memoriale, non è mai consegnato nudo e crudo al lettore: lievita, fino a diventare altro da sé: vita che si fa finzione; letteratura che, prendendo le mosse dalla vita, dalla vita si allontana, e ad essa tuttavia ha la pretesa, perpetua, di rimandare.
Rimane poi intatto, nell’inscenare l’ennesima pantomima mentale, il gusto per le tranchant e idiosincratiche invettive di pancia: si leggano, per dirne una, le pagine dedicate al Sessantotto e agli anni neri del terrorismo, spruzzate di feroce sarcasmo, specie contro i furori dei cosiddetti "intellettuali estremi", che tanto hanno nociuto e continuano a nuocere; o ancora, gli strali rivolti al circo Barnum dell’editoria (pronto a incoraggiare romanzi come fossero «compitini»), e più in generale all’immiserimento cui s’è ridotta, aujourd’hui, la letteratura («cesso a cielo aperto in cui ognuno scarica le sue caccole morali e sentimentali»).
Il gabinetto del dottor Kafka non è certo un libro da poco, eppure aleggia un dubbio peraltro autorizzato da una citazione tratta da Il malpensante del sommo barocco Bufalino, posta non a caso da Permunian in calce al capitolo di congedo: «Di tutto questo teatro di sillabe e gesti perduti, recitato da un esercito di ombre, che saprei se qualche libro non mi aiutasse?». È lecito chiedersi, a lettura ultimata: che ne sarebbe di questo meraviglioso "scrittore di bambole", di demoniaci carillon, di macchine inutili alla Munari, se venisse meno il conforto dei libri degli altri (si rammenti Permunian è, come il Toppi della Casa, un bibliotecario)?
Media: Scegli un punteggio12345 Nessun voto finora