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Francesca Fuochi
I gatti sono stati i protagonisti di miti e leggende di tutto il mondo fin dall’antichità.
Questo legame esoterico, sia sotto l’aspetto mitologico-religioso che del folklore, ha sempre caratterizzato il rapporto tra uomo e gatto, ritenuto essenzialmente un animale dotato di misterioso fascino, di poteri magici o di qualità soprannaturali.
Etimologia
A partire da quest’ultimo termine, i Copti chiamarono il gatto Chau, conservatosi nel termine atto ad indicare il gatto selvatico dell’Egitto e dell’Asia (Chaus).
Nel V secolo a.C., Erodoto ebbe modo di conoscere questo felino e gli diede il nome di Ailouros (“dalla coda mobile”), termine che presto venne sostituito da Gale, vocabolo greco utilizzato originariamente per la donnola (in età tarda si utilizzò kàttos).
Nell’antica Roma il gatto selvatico veniva detto Felis, da cui derivano i nostri felino, felide, ecc.
Dal IV secolo d.C., compare il termine Cattus, di derivazione presumibilmente africana (cfr. il nubiano kadis) o celto-germanica (nei cui idiomi viene variamente riprodotta, ad esempio: irlandese cat, antico tedesco chazza, antico scandinavo kötr). Una possibile origine semitica del vocabolo potrebbe essere attestata da un’opera armena del V sec., in cui si trova catu, a cui fa riscontro il siriano gatô.
Cattus sarà all’origine del nome del gatto nella maggior parte delle lingue europee (cat inglese, katz tedesco, kat olandese, gato spagnolo e portoghese, chat francese, kochka russo).
In Africa, per indicare il gatto, vengono usati tuttora termini principalmente onomatopeici (ad esempio in Somalia è chiamato Muculel).
Una curiosità: la parola “cataro” apparve per la prima volta tra il 1152 e il 1156 nei “Sermones adversus Catharorum errores” di Ecberto di Schonau (ove egli scrisse “Catharos, id est Puros”, ossia “I Catari, cioè i Puri”). Il frate Alano di Lilla, sul finire del secolo, ne diede una etimologia denigratoria: “Dicuntur Catari a cato”, “sono detti Catari da gatto”, in quanto erano, secondo le credenze popolari, usi abbracciare il posteriore di un felino, simbolo del diavolo, nei loro riti segreti.
Storia, mitologia, leggende
Le prime testimonianze, risalenti all’Antico Regno, si trovano nel “Libro dei Morti”, ove il gatto, identificato sostanzialmente col leone, combatte contro Apophis, il pitone delle paludi, simbolo delle forze malvagie, allorché attacca la terra durante la notte. Gli occhi dei felini, trattenendo i raggi della luce diurna del sole (da qui deriverebbe la possibilità di vedere nell’oscurità e il loro colore rifrangente al buio), spaventarono, infatti, col loro sguardo infuocato, i malvagi serpenti e nemici di Ra, salvando il mondo. La stessa Sekhmet, dea della guerra legata a Ra, viene raffigurata come una donna con la testa di leone.
Tra le divinità egizie, si annovera poi Myeou (termine evidentemente onomatopeico che significava appunto “gatto”), personificazione di Ra sotto forma di felino; Tefnut, dea dalla testa leonina, il cui nome significa “umidità”, una delle originarie forze della creazione; Mafdet, dea che assicura la buona riuscita dei rituali di guarigione e protezione. In particolare, è stato reperito un incantesimo contro i serpenti, in cui era invocata proprio Mafdet con queste parole: “O Cobra, io sono la fiamma che brilla sulle ciglia degli dei del Caos: allontanatevi da me, perché io sono Mafdet!”
Tuttavia, il gatto era legato principalmente alla dea Bast (o Bastet). Bast, protettrice dei gatti e di coloro che si prendevano cura dei gatti, era una dea potente, legata a Ra, simbolo della femminilità, della sensibilità e della magia; proteggeva, inoltre, i bambini, l’amore, la fertilità, la famiglia e la casa. Il suo culto era incentrato nella città di Bubastis (chiamata “Per-Bast” o “Casa di Bast”), dove si ergeva il suo tempio, che Erodoto annovera tra i più magnificenti, e nelle cui necropoli furono trovate centinaia di mummie di gatti. La stessa Bast era rappresentata o sotto forma di gatto o come donna dalla testa di gatto; inoltre, si credeva che guidasse un carro da loro trainato.
Tuttavia, come tutte le divinità egizie, Bast celava anche un lato più oscuro. Si ricorda, a tal proposito, una leggenda inerente la ricerca del Libro di Thoth, in cui una sacerdotessa di Bast, dopo aver sedotto il principe Setna, gli disse “Gioisci, mio dolce Signore, perché io diverrò tua moglie. Ma ricorda che io non sono una comune donna, ma la figlia di Bastet la bella – e non accetto rivali. Perciò, prima di sposarmi, dovrai divorziare dalla tua attuale moglie ed emanare un editto secondo il quale tu mi consegnerai ufficialmente i tuoi figli come sacrificio a Bastet, perché io non potrei tollerare che essi possano vivere e in futuro poter fare del male ai nostri figli”.
Da qui, la credenza egizia femminile che la bellezza dei gatti fosse divina, ideale, fatale, tanto che le donne si truccavano accentuando dei particolari tipicamente felini, soprattutto la forma degli occhi, per accentuarne l’aria misteriosa.
Era uso consacrare bambini a Bastet, facendo un piccolo taglio sul braccio e mescolando il sangue che gocciolava a quello di un felino. Un uomo che uccidesse un gatto, anche per caso fortuito, era giustiziato a morte e quando un gatto moriva i proprietari usavano rasarsi le sopracciglia e il capo in segno di lutto. Il gatto, la cui pupilla subisce delle variazioni che ricordavano le fasi della luna, veniva paragonato alla sfinge per la sua natura segreta e misteriosa e per la sensibilità alle manifestazioni magnetiche ed elettriche. Inoltre, la sua abituale posizione raggomitolata e la facoltà di dormire per giornate intere ne facevano, agli occhi degli ierofanti, l’immagine della meditazione, esibita come esempio ai candidati all’iniziazione rituale. Si affermava, infine, che il gatto possedesse nove anime, e godesse di nove vite successive.
Pare infine che, mentre il gatto era sacro al Sole e a Osiride, la gatta era sacra alla Luna e a Iside.
Attraverso l’Egitto il gatto giunse nei paesi arabi, dove il nostro felino venne preso rapidamente in simpatia e la sua fama ben presto eguagliò quella del cavallo, altro animale sacro.
Si narra la leggenda della gatta di Maometto, Muezza, che si era addormentata sulla manica di un abito del padrone. Quando Maometto dovette allontanarsi, non volendo disturbarla, preferì tagliare la manica della veste. Al suo ritorno, Muezza si inchinò in senso di gratitudine nei confronti del Profeta, il quale la accarezzò tre volte sul dorso (secondo alcune leggende, questo gesto consente al gatto di atterrare sano e salvo cadendo dall’alto sulle zampe; il numero tre ha un significato importante in quanto nella mitologia il “tre per tre volte” – ossia il nove – simboleggia l’infinito, donando così al gatto le celebri nove vite).
Anche gli Etruschi e i Romani conoscevano il gatto, del quale apprezzavano i servigi sia come animale da lavoro (per debellare i topi) che da compagnia.
La dea latina Diana, associata alla luna, alla femminilità e alla magia, proteggeva la gravidanza e intratteneva un rapporto privilegiato con la natura, i boschi, gli animali e le piante. Ella, per sedurre il fratello Apollo e concepire da lui un figlio, prese forma di gatto.
I Greci, al contrario, ignorarono i gatti. Per cacciare i topi dalle loro case, si servivano delle donnole e dei colubri.
Anche altre culture hanno conosciuto il gatto e la sua divinizzazione: in India c’era la dea Shasti, divinità felina simbolo di fertilità e maternità; in Russia, Domovoj era il protettore della casa e di coloro che la abitano e poteva assumere la forma di gatto; Tjilpa era l’ancestrale totem australiano dalla forma di uomo-gatto; Para erano antichi spiriti domestici del folklore finnico, che potevano apparire anche sotto l’aspetto di felino. Altri esempi: in Cina il gatto era considerato benefico e veniva mimato nelle danze agrarie (Granet); i Nias di Sumatra ritengono che il gatto aiuti a scagliare le anime colpevoli nelle acque infernali; per i nativi americani il gatto selvatico era simbolo di destrezza, riflessione, ingegnosità, capacità di osservazione e furbizia.
In area orientale, si narra che il tempio Khmer di Myanmar ospitasse una foltita popolazione di gatti sacri. Durante un assalto al medesimo tempio, il gran sacerdote venne ferito a morte ed il suo fedele gatto si accucciò sopra di lui, rivolgendo lo sguardo alla divinità del tempio. Così facendo, il suo mantello divenne dorato e gli occhi blu, mentre quando si voltò verso la porta del tempio, le sue zampe si colorirono di marrone eccetto quelle posteriori ancora appoggiate sul padrone morente, le quali rimasero bianche. Guidati dallo sguardo del gatto rivolto alle porte del tempio, i monaci si precipitarono a chiuderle, salvandosi così dal saccheggio e dalla distruzione. Il gatto non abbandonò il suo padrone e morì sette giorni dopo di lui; quando i monaci si riunirono per eleggere il nuovo successore del sacerdote videro accorrere tutti i gatti del tempio trasformati nelle sembianze di Sinh, il felino del sacerdote defunto.
Nella cultura celtica, generalmente il gatto non godette di ottima fama ed fu sempre ritenuto legato a poteri ctoni e inferi, nonché una creatura profetica.
Un racconto epico dei Celti descrive le imprese del re irlandese Cairpre o Carbar detto “Testa di gatto”. Altre leggende irlandesi parlano di un’isola abitata da uomini con testa felina e da guerrieri che incutevano grande timore ai loro nemici poiché indossavano elmi ricoperti dalla pelliccia di gatti selvatici. La gente-gatto, una tribù di Pitti conosciuta come Kati, viveva nel Caithness, il promontorio dei gatti, e Sutherland in gaelico è Cataobh – il paese dei gatti.
C’è anche una storia che narra le avventure di Maeldune, figlio di una regina irlandese e di un gatto custode di grandi ricchezze. Dopo un viaggio in mare il protagonista arriva con tre compagni su un’isola dove si trova un castello pieno di tesori favolosi, apparentemente abbandonati: a custodia c’è solo un gattino apparentemente inoffensivo. Trovando una grande tavola imbandita, Maeldune chiede al gatto il permesso di mangiare. Dopo averli osservati un attimo in silenzio, il felino torna ai suoi giochi. I giovani, rassicurati, si mettono a tavola e banchettano. Prima di partire, tuttavia, nonostante gli avvertimenti di Maeldune, un compagno non sa resistere alla tentazione di sottrarre una collana dal tesoro. Immediatamente il gatto si trasforma in una creatura fiammeggiante che lancia al ladro un’occhiata di fuoco, folgorandolo all’istante e riducendolo un mucchietto di cenere.
In Italia tracce arturiane originali si riscontrano in testimonianze di carattere architettonico (tutte curiosamente precedenti alle opere di Geoffrey e di Chrétien). Nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, realizzato dal sacerdote Pantaleone nel 1165, “Rex Arturius” cavalca un animale simile a una capra e affronta un gatto gigantesco. La presenza di questo animale è particolarmente interessante, in quanto prova come i miti celtici si fossero diffusi anche nell’estremo sud dell’Europa: la creatura, infatti, si ricollega al “Cath Palug”. La storia del combattimento tra la belva e Re Artù è nota anche in Francia, dove il felino si chiama Capalu e sarebbe stato ucciso presso il lago Bourget, sulle Alpi.
Presso i Celti francesi, invece, i gatti non erano amati, perché considerati incarnazione di forze malvagie; i loro occhi mutevoli venivano ritenuti simbolo di falsità, ipocrisia e cattiveria, per cui era abituale che le cerimonie di purificazione si concludessero col sacrificio di un gatto.
Non esiste, invece, fonte scritta né reperto archeologico che permetta di arguire una divinizzazione del gatto da parte dei popoli Celti, benché qualche studioso sostenga un legame tra il gatto e la Dea Madre dei druidi, ma come “creatura” della Dea, mai come Dio o Dea in sé.
Il seguente rito era in uso in Scozia: un gatto vivo era torturato, arrostito allo spiedo, fino a che altri gatti non apparissero a dare le informazioni che avrebbero salvato il loro simile, oppure finché il re stesso dei gatti (in particolare quelli identificati come “gatti magici”), Cath Sith, non fosse apparso per rispondere.
Questa usanza non è certa e testimoniata in modo sufficientemente attendibile, perché riportata dai preti in un’epoca che già li vedeva come personificazione demoniaca.
A tal proposito, si richiamano il detto tradizionale irlandese “Che Dio salvi tutti meno i gatti” e il fatto che fosse considerato sfortunato vedere un gatto il primo giorno dell’anno, a meno di non chiamarsi MacIntosh o appartenere al clan di Cattan (il cui capitano era il Grande Gatto).
Parecchi clan scozzesi, tuttavia, possiedono il gatto come loro animale totemico (i MacIntosh, MacNeishe e MacNicol il gatto domestico, i Mac Brain il gatto selvatico).
Un periodo decisamente buio e carico di superstizione per questi felini fu il Medioevo, durante il quale subirono atroci sevizie. Benché questo atteggiamento contro i gatti avesse inizio nel X sec., l’ultimo gatto giustiziato in Inghilterra per stregoneria morì addirittura nel 1712.
Già a opinione degli gnostici, il gatto era legato agli aspetti diabolici della femminilità.
Si ricorda, in tal senso, che la pura e ribelle Lilith, l’incontrollabile, l’imprevedibile, la vergine selvaggia, sovrana delle ombre, scelse per compagno lo spirito stesso della notte e del mistero: il gatto.
I cristiani videro da sempre questo felino di mal occhio, accusandolo di portare con sé tutti i malefici possibili. Per di più, il gatto fu molto presto associato alla stregoneria: le streghe amavano trasformarsi in animali, in particolare in gatte; una donna che vivesse con molti gatti (ritenuti inviati dal diavolo stesso per aiutarla nei suoi incantesimi) era additata come strega.
Durante quest’era di oscurantismo, furono presi di mira soprattutto i gatti neri. Papa Gregorio IX dichiarò i gatti neri stirpe di Satana nella sua bolla papale del 1233, con la quale prese avvio un vero e proprio sterminio di queste creature, torturate e arse vive al fine di scacciare il demonio.
Oggi il gatto è stato riabilitato ed è considerato come uno dei migliori animali da compagnia.
Oltretutto, negli ultimi anni sono stati condotti diversi studi ed esperimenti scientifici, volti a dimostrare che il gatto è veramente un animale dalle straordinarie capacità extra-sensoriali (ad esempio, in grado di percepire l’imminente morte del padrone o se egli si trova in pericolo, di esercitare la telepatia, la predizione di terremoti, temporali e altri eventi catastrofici molto tempo prima che abbiano luogo, la preveggenza, la capacità di percepire forze soprannaturali e “vedere” gli spiriti dei defunti).
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L'articolo Il gatto nell’antichità tra mitologia e leggenda è tratto da ACAM.it - Associazione Culturale Archeologia e Misteri. L’intera opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons