Il gene della guerra

Creato il 20 febbraio 2014 da Thoth @thoth14

“La guerra, essendo atto di violenza, ha necessarie attinenze col sentimento; se essa non ne trae origine, vi farà capo tuttavia più o meno, a seconda non del grado di civiltà, ma della grandezza e durata degli interessi in conflitto. (…) Confermiamo dunque: la guerra è un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo”.

Brano tratto da DELLA GUERRA di Karl von Clausewitz

Guerra tra popoli, guerra tra stati e nazioni, guerra tra fazioni, guerra civile ecc. ecc. Varie tipologie di guerra per un solo concetto. La guerra (ben si adatta la definizione di Karl von Clausewitz sopra riportata) è da sempre un atto di forza fra esseri umani contrapposti. Nei secoli e nei millenni sono cambiati i mezzi, le armi e il modo di fare la guerra ma non di certo la distruzione, la morte, il dolore, la fame che essa apporta.

Non è questa la sede per analizzare o capire appieno una realtà complessa come la guerra, ne lo si pretende o lo si vuole; poche considerazioni, anche se non del tutto esaustive o sufficienti, forse possono bastare. Tempi, epoche, civiltà nei quali e per i quali la guerra era importante ed era stabilita da leggi o da regole precise. Luoghi e società che vedevano fronteggiarsi eserciti di guerrieri e di soldati in campi famosi e in epiche battaglie, cantate poi ed immortalate dai poeti in momenti di esaltazione nazionale e di ispirazione personale e profonda.

Una battaglia, persa o vinta, ha deciso le sorti di un popolo o di un’intera civiltà. Una guerra, combattuta per anni o anche per secoli (la guerra dei cento anni fra Inghilterra e Francia), talvolta senza vincitori né vinti, ha mutato il corso della Storia, ha accelerato o arrestato il cammino del progresso tecnico e della conoscenza. Per i giovani la guerra ha costituito sempre, comunque, un richiamo molto forte per la loro vanità e il loro senso dell’amor proprio.

Sui campi di battaglia si poteva morire atrocemente ma ci si poteva anche coprire di gloria, fregiarsi di medaglie e di onorificenze, diventare degli eroi considerati spesso alla stessa stregua di dei.

Le due guerre mondiali (la prima e la seconda) scoppiate nel Novecento hanno un po’ ribaltato il concetto tradizionale di guerra. Per la prima volta, oltre all’utilizzo di armi nuove e micidiali, si sono viste in campo forze immani ed eterogenee, intere masse umane, distruzioni di massa (soprattutto nella seconda guerra mondiale) assetti ed equilibri nuovi fra territori, confini e formazioni di nuove entità geopolitiche. La guerra? Un flagello. La guerra? L’igiene del mondo, la salvezza dei popoli. La guerra? Il volere di Dio. E allora si ha anche la guerra santa, combattuta in nome di Dio, o di un dio collettivo o del tutto personale.

Si dice che forse la peggiore fra le guerre sia quella civile, perché combattuta fra “fratelli”: uomini e donne appartenenti ad una stessa realtà nazionale e ad uno stesso popolo, che hanno in comune la lingua, i costumi, le credenze e le tradizioni, addirittura perfino i gusti, le tendenze e il modo di pensare, e che l’odio e la ferocia siano in grado di raggiungere livelli molto alti. Era un grande onore essere soldati. Era motivo di vanto comandare un battaglione, una divisione o l’intero esercito. Soprattutto dopo la messa a punto dei primi aerei e, in particolare, delle prime aviazioni militari. Essere aviatore e sganciare bombe su città, villaggi, complessi industriali e militari era il massimo che un giovane uomo potesse desiderare.

Ma oggi, forse, non è più così. La coscienza sociale e civile prude, quella umana è diventata insofferente, quella intima e nascosta quasi del tutto ribelle e non più completamente cieca e sorda alla morte e alla sofferenza di migliaia e migliaia di donne, di bambini, di vecchi, di persone in genere attuate dallo schiacciare appena un pulsante a bordo di un aereo a undici mila metri di quota o da una colonna di mezzi corazzati senza volto.

I conflitti si allargano, cambiano natura, mezzi e convenzioni; le guerre pullulano su tutto il pianeta: in aree dimenticate e oppresse; in aree industriali e progredite; nel cuore di paesi dove l’arte e la cultura prosperano e alimentano l’esistenza. Allora, bisogna chiedersi: non c’è proprio speranza? Il gene della guerra, portatore di atrocità e devastazione, non potrà mai essere “estirpato” o reso “inerte” dal e nel DNA umano? Sembra proprio di no, e lo si constata proprio alla luce di ciò che sta avvenendo ultimissimamente nel mondo.

Eppure la pace è possibile almeno quanto la guerra, e può essere provvisoria, duratura e forse diventare anche uno status permanente. Dipende, in sostanza e in definitiva, come la guerra dal cuore dell’uomo: da quel che si agita, si muove e alberga nel cuore dell’uomo, perché la luce e le tenebre hanno uguale peso e consistenza fino a che la libertà di scelta non fa prevalere l’una sulle altre o viceversa.

Non ci resta, in fondo, ancora una volta (come in tempi ormai perduti e lontani, ad esempio dei vati e degli aedi) che cantare, con afflato poetico e struggente, le delusioni e le illusioni, l’assenso e il rifiuto, l’onore e la gloria, la vittoria e la sconfitta, la rabbia e il tradimento, la vita e la speranza che, in era di post – moderno avanzato e superato, sembrano ben compensarsi a vicenda nella canzone IL MIO NOME E’ MAI PIU’ interpretata, con spirito nuovo e verace, da Luciano Ligabue, Piero Pelù e Lorenzo Jovannotti.

Forse soltanto un farmaco lieve e appena percepibile dalle profonde e gravi ferite di ogni guerra.

Francesca  Rita  Rombolà


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