Sono cresciuto in una famiglia nella quale i gesti avevano un valore maggiore delle parole. Mia nonna era un esempio vivente di comportamento. Era andata a scuola fino alla terza elementare, alla sua epoca l'obbligo di istruzione si fermava lì, giusto il tempo di imparare a leggere e a scrivere, grossomodo. Il suo lessico si componeva di poche frasi, ma erano i fatti il valore aggiunto alle parole povere. Sapeva arricchirle con il tono della voce, così come poteva dare loro un peso addirittura maggiore restandosene in silenzio: le bastava muoversi, compiere un gesto. Non sapeva mostrare, ma dimostrare sì, e lo faceva in continuazione. Il valore del pane me lo ha insegnato mia nonna. Lo teneva fermo contro il petto quando lo affettava per farcelo mangiare, questo era il suo gesto. Il vestito nero le si macchiava con una nuvola di farina bruna. Distribuiva le fette tagliate prima a noi bambini, poi agli altri, infine a se stessa, se qualcosa rimaneva, e comunque mangiava in disparte, quando noi avevamo già finito. Ricevevamo a piene mani, con gratitudine e senza sprecare nulla, ciò che mia nonna ci offriva. E a casa non compravamo mai altro pane se prima non avevamo finito quello che già avevamo. Non era per la solita storia che si racconta sempre ai bambini, che ci sono persone che muoiono di fame e che quindi il cibo non va buttato. No: il pane, che non costava nulla, aveva un valore maggiore sia del cibo in generale che di molte altre cose. Era considerato più prezioso di una bistecca, più importante di un gioiello e di un vestito. Tutto mia nonna poteva perdonarci, ma buttare il pane era un peccato mortale. E in questo io e mio fratello, che non eravamo dei santi e combinavamo sempre qualche guaio, la rispettavamo profondamente. Il pane per mia nonna era un essere vivente, con le sue gioie e i suoi dolori, era sacrificio, risparmio e sudore. Per tutta la sua vita non aveva fatto altro che racimolare le molliche di cui si privava e con le quali formava il pane da regalare ogni volta a chi ne aveva bisogno. Il pane era prima di tutto un corpo a cui volere bene. Un corpo che non doveva soffrire né la fame né la sete. Il gesto di offrire il pane rappresentava il passaggio dalla fame alla sazietà, dalla mancanza alla pienezza, dalla morte alla vita. Non era il corpo di Cristo, quello che mia nonna ci offriva, ma il proprio: era la sua vita, il suo esempio. Era questo che mia nonna ci dava ogni qualvolta ci tagliava il pane: mentre ci nutriva ci regalava una parte di se stessa.
Sono cresciuto in una famiglia nella quale i gesti avevano un valore maggiore delle parole. Mia nonna era un esempio vivente di comportamento. Era andata a scuola fino alla terza elementare, alla sua epoca l'obbligo di istruzione si fermava lì, giusto il tempo di imparare a leggere e a scrivere, grossomodo. Il suo lessico si componeva di poche frasi, ma erano i fatti il valore aggiunto alle parole povere. Sapeva arricchirle con il tono della voce, così come poteva dare loro un peso addirittura maggiore restandosene in silenzio: le bastava muoversi, compiere un gesto. Non sapeva mostrare, ma dimostrare sì, e lo faceva in continuazione. Il valore del pane me lo ha insegnato mia nonna. Lo teneva fermo contro il petto quando lo affettava per farcelo mangiare, questo era il suo gesto. Il vestito nero le si macchiava con una nuvola di farina bruna. Distribuiva le fette tagliate prima a noi bambini, poi agli altri, infine a se stessa, se qualcosa rimaneva, e comunque mangiava in disparte, quando noi avevamo già finito. Ricevevamo a piene mani, con gratitudine e senza sprecare nulla, ciò che mia nonna ci offriva. E a casa non compravamo mai altro pane se prima non avevamo finito quello che già avevamo. Non era per la solita storia che si racconta sempre ai bambini, che ci sono persone che muoiono di fame e che quindi il cibo non va buttato. No: il pane, che non costava nulla, aveva un valore maggiore sia del cibo in generale che di molte altre cose. Era considerato più prezioso di una bistecca, più importante di un gioiello e di un vestito. Tutto mia nonna poteva perdonarci, ma buttare il pane era un peccato mortale. E in questo io e mio fratello, che non eravamo dei santi e combinavamo sempre qualche guaio, la rispettavamo profondamente. Il pane per mia nonna era un essere vivente, con le sue gioie e i suoi dolori, era sacrificio, risparmio e sudore. Per tutta la sua vita non aveva fatto altro che racimolare le molliche di cui si privava e con le quali formava il pane da regalare ogni volta a chi ne aveva bisogno. Il pane era prima di tutto un corpo a cui volere bene. Un corpo che non doveva soffrire né la fame né la sete. Il gesto di offrire il pane rappresentava il passaggio dalla fame alla sazietà, dalla mancanza alla pienezza, dalla morte alla vita. Non era il corpo di Cristo, quello che mia nonna ci offriva, ma il proprio: era la sua vita, il suo esempio. Era questo che mia nonna ci dava ogni qualvolta ci tagliava il pane: mentre ci nutriva ci regalava una parte di se stessa.
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