Il gioco grande

Creato il 19 maggio 2012 da Ilsegnocheresta By Loretta Dalola

Puntata seria, argomento che scuote i ricordi e le coscienze.  Puntata che si apre con le parole di Paolo Borsellino ad un mese dalla morte di Giovanni Falcone :” Ricordo che Giovanni mi disse, la gente fa il tifo per noi”! Era vero. Era stata una stagione all’insegna della volontà di cambiamento, finita nel sangue. Se ne parla  a “Le Storie – diario italiano, con Corrado Augias e Roberto Scarpinato magistrato, che ha curato la prefazione del libro: Le ultime parole di Falcone e Borsellino, che ha fatto parte del pool antimafia insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un omaggio doveroso e un necessario ritorno alle fonti, a ciò che veramente hanno detto e scritto, ora che stanno venendo alla luce quelle verità per le quali entrambi hanno sacrificato la vita.

Il magistrato e il conduttore, ricordano, la realtà durissima dove iniziarono a lavorare Falcone e Borsellino. Normalmente si pensa a quella mafia come ad uno epico scontro, mentre la tangibilità,  è più complessa: “La narrazione pubblica offre una visione semplificata della loro vicenda. Si divide nettamente in bene e in male, dimenticandosi dei colletti bianchi e che il vero cuore di tenebra del Potere si annida nelle istituzioni e nella politica”.

Collusioni e compatibilità con il sistema che Falcone  e Borsellino iniziarono a sgretolare. Entrarono dentro il gioco grande del potere, creando una frattura profonda, tra chi si volta dall’altra parte e chi pratica il tema della legge è uguale per tutti. “Falcone e Borsellino rappresentavano forse per la prima volta uno Stato credibile. A venti anni di distanza, ci sono più strumenti per combattere l’ala militare di Cosa Nostra, ma nel contrasto dei rapporti tra mafia e politica sono stati fatti passi indietro. E se una volta ci si scandalizzava se qualcuno veniva fotografato a un matrimonio mafioso, oggi c’è gente condannata che sta tranquillamente al suo posto in Parlamento”.

Oggi la mafia non uccide più in maniera eclatante, ha altri mezzi, più efficaci, la corruzione. La criminalità organizzata di stampo mafioso ha subito una forte evoluzione,  usa il cervello o il business ad alto livello.  Non cerca più lo scontro aperto con le istituzioni perchè ha trovato il sistema di entrare a far parte delle istituzioni stesse,  in modo stabile, organico.

Falcone cominciò a morire quando lo sostituirono, una strategia di smobilitazione del pull antimafia che gli impedì di continuare l’opera di disarticolazione. Una serie di tentativi  di squalificare i magistrati del pool dipingendoli come strumenti di manovre politiche occulte o come arrivisti colti da una sfrenata ambizione personale. Questa è stata la mossa dei colletti bianchi, che trovandosi nei punti nevralgici del potere hanno potuto scoordinare il lavoro pulito di  chi credeva nella giustizia e nelle istituzioni, di chi insomma stava dalla parte giusta. “Nella narrazione pubblica sembrerebbe che tutto si risolva in uno scontro tra Falcone e Borsellino da una parte, simboli dello Stato legalitario, ed ex contadini semianalfabeti come Riina e Provenzano dall’altra, che nell’immaginario comune vengono identificati come i “portatori del male della mafia”. Se questi fossero i termini della storia verrebbe da chiedersi come mai lo Stato italiano non sia ancora riuscito a debellare la mafia. A vent’anni dalle stragi credo sia venuto il momento di confrontarci con quelle parti rimosse della storia che chiamano in causa le responsabilità non solo penali, ma anche politiche e morali di significativi segmenti della classe dirigente”.

Falcone e Borsellino,  furono costretti a misurarsi non solo con i progetti di morte orditi ai loro danni, ma anche con una serie di ostacoli frapposti al loro operare da un mondo di potenti che vedevano i loro interessi messi in pericolo quando il pool antimafia iniziò ad elevare il livello delle indagini.  Un mondo potente che fece sparire l’agenda rossa di Borsellino, quella dove annotava fatti che erano talmente riservati che riteneva di non poterli annotare nella sua agenda ufficiale  e che introdusse falsi collaboratori che depistarono i magistrati. Questo fa intuire il gioco grande, il volto della medusa del potere che impedirono di arrivare veramente a sconfiggere il mondo mafioso e che purtroppo non riesce ancora a concludersi nonostante il continuo lavoro della magistratura onesta. C’è una generazione di magistrati che ha dimostrato con i fatti di non fermarsi davanti a nulla e di esercitare il suo dovere indagando in tutte le direzioni per accertare la verità. Un solco di legalità lasciata da Falcone e Borselino che l’Italia non vuole dimenticare, perché Falcone e Borsellino non rappresentino solo la caduta sul campo di due servitori dello Stato. Un’eredità che vuole far camminare le loro idee. La storia di Falcone e Borsellino appartiene all’Italia tutta, agli italiani di ieri, di oggi e di domani per il valore dell’esempio che essa porta con sé.

“Falcone è stato un eroe perché sapeva che doveva morire, aspettò la morte, non fuggì, perché sentiva che impersonava la credibilità dello Stato. Un uomo che ha aspettato la morte guardandola negli occhi”. Anche se loro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non volevano essere eroi. Quando nel corso delle interviste gli si chiedeva perché continuassero nel loro lavoro pur conoscendo gli alti rischi loro rispondevano: “per dovere”, “per puro spirito di servizio”. E questa è un bell’esempio di vita coerente, basata su valori sani, valori che hanno guidato la loro  vita: il sacrificio, il senso del dovere, l’amore per il lavoro, il senso del giusto , del bello. Perché come disse Falcone:  “Gli uomini passano, gli ideali restano. Restano le loro tensioni morali. Cammineranno sulle gambe di altri uomini.”


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