Perché si dice che il calcio è il gioco più bello del mondo? Chi l’ha deciso? È probabilmente il gioco più popolare, ma il titolo di “gioco più bello del mondo” secondo me spetta di diritto al rugby.
Quando ero piccina mi sembrava uno sport violento e confuso: una massa di omoni che corrono dietro a una palla e che ogni tanto saltano l’uno addosso all’altro oppure si azzuffano, questa in breve era la mia idea delle regole. Poi, quando avevo tredici anni, a Pasquetta andai con mia cugina a fare una scampagnata fuori porta e conoscemmo alcuni ragazzi più o meno della nostra età: venne fuori che quello che piaceva a me (un ragazzone con gli occhi verdi che a sedici anni era già 1-metro-e-90 per una quintalata di chili – gnam!) giocava a rugby per la squadra locale e, così, nella speranza di avere qualche possibilità con il mio bello, cominciai a interessarmi al gioco. Arrivai al punto di chiedere in giro se c’era qualcuno con cui allenarmi, ma a quei tempi, e per di più in un paese di provincia, il rugby non era popolare come oggi e fu impossibile per me trovare una squadra (figurarsi, poi, essendo una ragazza! Ma dove andremo a finire, signora mia?).
Però mi sono appassionata, soprattutto grazie al rispetto per gli avversari e allo spirito pacifico e festaiolo sempre mostrati dai giocatori e dalle tifoserie, che ne fanno un vero sport per tutta la famiglia.
Il mese scorso in Nuova Zelanda si è conclusa la Coppa del Mondo, vinta dai miei beneamati All Blacks, e per me è stata una festa, condivisa qui ad Abu Dhabi con tanti amici con cui ci ritrovavamo per vedere insieme le partite.
Durante le semifinali, però, sono dovuta andare in Italia per una settimana ed ero preoccupata di non riuscire a trovare un posto dove poter vedere Nuova Zelanda-Australia, la madre di tutte le sfide di questo campionato mondiale. Arrivata in mattinata a Termini, ho fatto un giro della zona per cercare un bar dove vedere la partita, ma dopo un’ora buona spesa per strada senza fortuna e un paio di inutili domande ai negozianti che mi guardavano come un’aliena, mogia mogia sono ritornata sui miei passi. Risalendo lungo via Cavour, all’altezza della Chiesa di Santa Maria Maggiore, ho sentito la musica di “God defend New Zealand” provenire da uno spiazzo sulla sinistra pieno di uomini e donne in piedi con la mano sul cuore. Mi sono buttata a pesce e ho scoperto un pub irlandese molto carino, il Druid’s Den, dove sono stata contentissima di seguire la partita insieme a una folla eterogenea di appassionati tifosi, sorseggiando… un ottimo succo d’arancia!
L’atmosfera a Roma era bellissima, forse perché del tutto inaspettata, ma è stato ancora più bello vedere la finale Nuova Zelanda-Francia, ad Al Ghazal Golf Club. La diretta era di domenica a mezzogiorno, quindi, quando ho preso due ore di permesso dal lavoro, pensavo di trovare il locale mezzo vuoto (nei Paesi arabi in generale la domenica si lavora); invece a quanto pare, quando c’è di mezzo il rugby, il lavoro è un optional: il club era strapieno, hanno dovuto addirittura aprire la sala delle feste al piano superiore!
I gestori avevano organizzato una specie di concorso della scusa più creativa per non andare in ufficio (vinta dall’irlandese J. con “Boss, sorry, I had a black out… An All Black out!”) e tra nasi gallici, urla e lacrime neozelandesi, e boccali di birra internazionali, gli ottanta minuti passati con lo sguardo incollato alla tv a guardare un’ottima Francia attaccare fino all’ultimo per poi soccombere ai Kiwi si sono estesi fino a diventare oltre tre ore di risa, balli e canti (e altra birra!). E devo dire che vedere dei ragazzi delle dimensioni di un armadio a due ante (e non esagero, parlo sul serio!) piangere come bambini, mi ha fatto un certo effetto…
Tutto questo non per fare una cronaca degli ormai passati Campionati del Mondo 2011, quanto per raccontare lo spirito del gioco che mi ha dato tanto in termini di ricchezza emotiva e mi ha aiutata in un periodo un po’ duro.
Per oltre tre anni Abu Dhabi è stata per me solo un posto di passaggio, un luogo con cui fin dal primo istante ho avuto un rapporto conflittuale, una sorta di prigione dorata da cui non riuscivo a scappare, finché una sera i miei attuali coinquilini mi hanno portato all’Al Ghazal Golf Club per un braai e hanno detto al F&B Manager che mi sarebbe piaciuto giocare a rugby. La settimana successiva (sembra passata una vita) mi sono timorosamente presentata in campo per la mia prima esperienza con la palla ovale, sicura che tutti quei masèri mi avrebbero preso in giro per la mia incapacità, e invece da un anno tutti i lunedì continuo a farmi la mia bella partitina di touch con i masèri che ora sono diventati anche dei grandi amici.
Alla fine è bastata una partita di rugby a farmi sentire a casa ad Abu Dhabi, ma d’altronde il rugby non è un gioco normale, come dice lo slogan delle nostre partite settimanali, rugby is a game played by men with odd-shaped balls!