Andrea Molaioli torna alla regia dopo il pluripremiato La ragazza del lago (2007) e lo fa con quello che già allora fu il suo attore protagonista: Toni Servillo. L’attore napoletano è infatti l’interprete de Il gioiellino, opera liberamente ispirata alle vicende del crac Parmalat e da altri episodi che hanno contraddistinto gli ultimi quindici anni italiani e internazionali, per quello scollamento fra economia reale e finanza che tanto ha danneggiato gli investitori di tutto il mondo.
Ernesto Botta (Toni Servillo) è il braccio destro di Amanzio Rastelli (Remo Girone), proprietario della Leda, azienda agro-alimentare specializzata nella produzione di latte. I due portano avanti da decenni l’impresa con grande successo, facendo della Leda un marchio italiano di grande eco internazionale, grazie anche alle speculazioni che gli stessi dirigenti hanno attuato in tutto il mondo, ramificando la loro presenza dagli Stati Uniti alla Russia post-sovietica. Tuttavia Rastelli è un imprenditore all’antica che non riesce ad aderire agli assetti dell’economia del nuovo millennio, facendo arrancare l’azienda fino all’inverosimile. Botta aiuterà il Presidente ad uscire da più di un guaio, ma la società è inevitabilmente destinata al crac, esito non evitato neppure dal ricorso a stratagemmi illegali per coprire i bilanci passivi.
“A parte quei 14 miliardi di buco, l’azienda è un gioiellino”, questa la frase attribuita a Calisto Tanzi che affascinò gli sceneggiatori de Il gioiellino, tanto da farne poi il titolo dell’opera. Il film di Molaioli possiede una drammaturgia quasi perfetta per il suo genere, con un ritmo sempre incalzante – nonostante le tematiche finanziarie non eccezionalmente avvincenti – una caratterizzazione dei personaggi ben calibrata, dialoghi e narrazione armonicamente posti e senza che mai uno di questi fattori cannibalizzi gli altri, per un marchingegno filmico di ottima fattura.
Il gioiellino rientra a pieno diritto nel nuovo cinema politico italiano, segnato da opere che fanno della denuncia sociale e civica il sottotesto di una narrazione non afferente al genere classicamente impegnato, e, infatti, le recriminazioni proposte agiscono sottotraccia senza mai arrivare all’epidermide dell’opera. Ne sono dei nobili esempi film di mafia come Le conseguenze dell’amore (2004) o Una vita tranquilla (2010) – tutti interpretati dallo stesso Servillo – dove la problematica affrontata è sempre posta sottovoce rispetto ad una narrazione che investiga altri campi dell’essere umano.
Il gioiellino, in ciò, non è da meno. Si potrebbe avere l’impressione che l’opera di Molaioli abbia come tema caratterizzante il crac di una nota società italiana, ma a guardar bene si capisce, invece, che il cuore del film è riposto nelle esistenze dei protagonisti, in una ragnatela di affetti, sentimenti e relazioni squisitamente umane, che vedono affacciarsi il contesto politico-economico solo come sfondo, per meglio caratterizzare e giustificare movimenti e motivazioni pertinenti ai personaggi, senza che il tema finanziario sovrasti mai l’indagine antropologica: questa è la chiave di volta che rende il film di Molaioli nient’affatto macchinoso, ma molto partecipato.
Si assiste così non semplicemente ad un pamphlet civico, ma a una operazione meglio articolata, grazie ad una narrazione introspettiva ed emotiva. Chi era nel torto e chi nella ragione sarebbe stato fin troppo retorico gridarlo. Quello che serviva era, invece, uno sguardo originale su un tema più che noto: risultato che Molaioli centra appieno.
Emanuele Protano