Quel giorno mi svegliai galvanizzata: mi attendeva la mia PRIMA ecografia.
Finalmente avrei visto il fagiolino che stava crescendo dentro di me. Ero incinta di poco più di 2 mesi.
Chiesi un permesso al lavoro e mi presentai all’ambulatorio con largo anticipo. Me ne stavo seduta su quel corridoio raggiante, tra donne con pance piccole e grandi, felice di essere una di loro.
La dottoressa mi chiamò con un’ora di ritardo, ma non ero minimamente preoccupata per il ritardo al lavoro.
Mi fece le domande di routine e poi esclamò sorridendo: “Diamo un’occhiata? Non vedremo certo il sesso ma sicuramente se è uno o 2”.
“Volentieri” risposi.
Mi mise il gel sulla panca, sempre sorridendo e iniziò a muovere la sonda.
Stette in silenzio per quasi 10 minuti, mentre il suo viso progressivamente si inscuriva.
Volevo chiedere se c’era qualcosa che non andava, ma non mi uscì la voce.
“Mi dispiace” ruppe il silenzio le, scuotendo la testa. “Cosa? Dispiace per cosa?”
“Chiamo una mia collega”. Il mio viso prese fuoco, mi sentivo il cuore battere all’impazzata.
L’ecografia che stava guardando era questa.
Il bambino aveva una plica molto spessa (sopra testa e schiena quel “contorno che vedete”), il che secondo la sottoressa era sicuramente sintomo di malattie genetiche o malformazioni molto gravi.
Sali in macchina sotto shock e cacciai un urlo con tutta la voce che avevo in me.
Chiamai mia madre e scoppia nel pianto più disperato che avessi mai fatto in vita mia, nei primi istanti non riuscì nemmeno a parlare, sentiva solo i miei singhiozzi. “Dove sei?? Hai fatto un incidente?”chiese allarmata; la sentii davvero agitata. Non so come, ma riuscii a bofonchiare qualcosa: capì all’istante.
Ci ho pensato spesso e razionalmente non mi spiego come potessi stare così male per un esserino grande meno di un accendino che non conoscevo nemmeno, ma non esagero se vi dico che in quel momento ho provato uno dei più grandi dolori della mia vita.
Tornai al lavoro distrutta, tanto che il mio titolare mi chiese cosa non andava e passò il pomeriggio con me a fare ricerche su internet riguardanti il mio caso.
I passi successivi furono: consulto genetico e Translucenza Nucale.
Al consulto genetico la dottoressa intervistò me e il mio ragazzo per capire se nella nostra famiglia ci fossero casi di malattie ereditarie.
La translucenza nucale invece non dette risultati perché fu effettuata troppo presto, nonostante questo la dottoressa del caso mi prese appuntamento per fare la villocentesi e con una freddezza animale mi illustrò con dovizia di particolari la procedura per l’aborto, invitandomi a presentarmi al prossimo controllo con il mio ragazzo “almeno se bisogno decidere di abortire siete già presenti tutti e due”, commentò la vincitrice del premio miglior tatto 2014.
Mi dissero che ero ancora in tempo, che mi sarei rovinata la vita e che sicuramente avrebbe avuto qualcosa o ancora più probabile: di lì a poco si sarebbe verificato un aborto spontaneo.
Ricordo che, nonostante non sia credente, pregai affinché si verificasse un aborto spontaneo; almeno la mia coscienza sarebbe stata sollevata da ogni responsabilità, nel bene e nel male.
Intanto le persone che sapevano che ero incinta si congratulavano, facevano domande, mentre io non avevo nemmeno iniziato a gioire.
Guardavo le altre ragazze incinte con invidia, le invidiavo mentre postavano “dolci” commenti sui social, mentre si aggiravano per i negozi per i bebè sognanti, mentre mia nonna mi allontanava ripetendomi: “Ti fai del male“.
Mi rivolsi a un angelo, una ginecologa dell’ospedale di Reggio Emilia, la quale come si suol dire “mi raccolse col cucchiaino” e senza mai illudermi mi promise che avremmo fatto tutte le verifiche del caso e avremmo deciso il da farsi solo di fronte ad esiti certi. Il mio morale però crollava a una velocità vertiginosa.
Il 20 dicembre feci la villocentesi.
Avrei dovuto stare ferma mentre mi infilavano quell’ago lunghissimo nella pancia, ma tremavo come una foglia.
Alle mie già poco probabilità di esito positivo si aggiunsero le alte probabilità che la villo sfociasse in aborto.
Passai le feste di Natale chiusa in casa. Non organizzai nemmeno la consueta cena di Natale con gli amici.
Passai il periodo più egoista della mia vita: pensavo solo a me e a lui. A nessun altro.
A seguito della villocentesi stessi 3 giorni ferma immobile a letto, faticavo ad alzarmi anche solo per fare pipì, non feci gli auguri di buon Natale a nessuno, tanto che a lavorare se ne ebbero a male.
La situazione era così drammatica che la gente anziché complimentarsi con me iniziava a fare dichiarazioni del tipo “Daì, sei giovane, andrà meglio la prossima volta”:
E, nonostante fossi distrutta, in cuor mio sapevo che mi saresti andato benissimo proprio tu, amore mio.
Non so se sia stato Babbo Natale o la concentrazione di amore che ero riuscita a recuperare, ma il 9 gennaio io, Andrea e mia mamma (senza la quale avrei perso la testa) andammo da uno specialista, il più bravo di tutti, per eseguire un esame morfologico.
Fu il regalo di Natale di mia madre: che regalo!
Non poteva prevederlo, lo sperava solo profondamente, ma questi ci disse che il bambino era perfettamente sano.
Uscimmo tutti e 3 dal bellissimo studio frastornati, restammo muti per almeno 10 minuti, poi iniziammo a ridere e urlare tutti e 3.
Camminavamo per il centro della città e la gente per strada ci sorrideva contagiata dalla nostra euforia.
la mia pancia il 9 gennaio
La villocentesi diede esito negativo, sembrava tutto andasse per il meglio quando all’ecografia successiva la mia ginecologa vide ancora qualcosa che non andava.
La pliche era quasi totalmente riassorbita, ma il bambino sembrava avere l’intestino iperecogeno.
Ci fecero altre analisi genetiche per escludere il rischio di fibrosi cistica. L’ospedale chiese di accelerare i tempi dei risultati in quanto mancavano 22 giorni al termine ultimo per poter abortire in Italia.
La dottoressa era più preoccupata di me, per le possibili conseguenze psicologiche: la pancia ormai era evidente e il bimbo ben formato, il tempo passava e sicuramente un aborto a gravidanza così avanzata sarebbe stato un dramma irrecuperabile.
Per quel che mi riguardava i risultati sarebbero potuti arrivare anche dopo un paio d’anni: il mio bambino non si sarebbe mosso da lì.
Dopo una settimana suonò il telefono: “Pronto Alice, sono la dottoressa Barbieri, Ho i risultati”
“Dottoressa buoni o cattivi?”
“Ne vorrei parlare con te qui da noi.”
“Buoni o cattivi????”
“Buoni Alice, buoni!” disse con un fil di voce, quasi commossa.
Ripetei “grazie” non so quante volte, forse 20, forse 30 e riattaccai. Quelle analisi non le andai nemmeno mai a ritirare, tanto ero stanca di dottori e referti: me le spedirono a casa, “in via del tutto eccezionale”.
Scoprimmo che a seguito della villocentesi avevo avuto una minaccia di aborto e perso sangue internamente, tanto che il piccolo ne aveva inghiottito un po’. Nulla di pericoloso.
Era la fine della tensione, era il deglutire dopo l’ultimo calcio di rigore ai mondiali, era il togliersi la mano dal viso nella scena clou di un film horror, era l’abbraccio dopo il dolore, era la boccata d’aria dopo l’apnea.
Era finita.
All’ecografia successiva vidi finalmente il viso del mio bambino.
Era bellissimo.
Certo bellissimo perché finalmente ero sua mamma, ma bellissimo perché faceva un gran bene al cuore.
Così oggi, stringendo tra le braccia il mio bambino ringrazio le notti di pianto, i pugni contro al muro, le urla, l’ascolto di improbabili commenti poco intelligenti su chiunque si sentisse in dovere di aprire la bocca a tutti i costi e i vaffanculo a chi ingenuamente mi rassicurava dicendomi che sarebbe andata bene la prossima volta…
Ne è valsa la pena se tutto questo mi ha dato la forza di regalarmi un sorriso così.
Chi ti ama c’è sempre, c’è prima di te, prima di conoscerti.
M. Mazzantini Non ti muovere
Say Hi – November was white, December Was Grey