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Il giorno in cui un pezzo d’Italia perse l’innocenza: 42 anni fa la strage di piazza Fontana

Creato il 12 dicembre 2011 da Antonellabeccaria

Banca Nazionale dell'Agricultura, Piazza Fontana, MilanoQuarantadue anni fa oggi la strage di piazza Fontana.

Si era ancora innocenti, all’ora di pranzo del 12 dicembre 1969, quando il telegiornale delle 13.30 aveva raccontato agli italiani che la Grecia dei colonnelli si era ritirata dal consiglio d’Europa dove si discuteva della sua sospensione. E aveva raccontato anche che la vertenza sindacale dei lavoratori dell’editoria sembrava mettersi al bene mentre nulla cambiava per i metalmeccanici, che restavano in stato di agitazione. Intanto – proseguiva la catena delle notizie – a Palermo non si arrestavano le indagini per la strage di viale Lazio, uno dei momenti più feroci della prima guerra di mafia. Ma in mezzo a tutti quegli scorci di vita e fatti, l’edizione del notiziario si concludeva con un soffio dell’innocenza tramontante degli anni Sessanta.

Lucio Battisti, snobbato dalla sinistra perché poco o per nulla impegnato, un fascistoide per qualcuno, come tutti quelli che non si schieravano, continuava a respirare a pieni polmoni la consacrazione del suo successo dopo ostacoli e delusioni. Era stato un anno fortunato, per lui, il migliore di tutti, iniziato in febbraio con il successo al festival di Sanremo dove aveva cantato Un’avventura e proseguito in estate con Acqua azzurra, acqua chiara, pezzo del trionfo al Festivalbar e al Cantagiro. Con una cadenza burina a rivendicare la sua estrazione sabina, e mentre confessava con una punta di imbarazzo al microfono di Lello Bersani che non aveva mai studiato musica, mescolava la timidezza dello sguardo alla caparbietà del suo percorso artistico.
«Intanto io canto le canzoni che mi vanno veramente a genio, insomma, quelle che sento. E di solito, in partenza, sono sempre quelle un po’ più difficili, che agli altri non piacciono, che gli altri trovano azzardoso interpretare, ecco».

«E lei si prende in pieno la responsabilità come autore», lo incalzava Bersani.

«Esatto».

Pasquale aveva ascoltato distrattamente le parole del giovane cantautore di origini reatine. Anche per lui non era solo Battisti, ma nella testa lo aveva archiviato come Battisti-Mogol: un doppio nome, uno per il musicista e l’altro per il paroliere, che aveva finito per identificare solo il volto più noto della neonata stella della canzonetta nostrana. Quella che solo qualche mese prima, d’estate, impazzava allo sfinimento nelle radio e nei juke-box.

Nei tuoi occhi innocenti posso ancora ritrovare il profumo di un amore puro, puro come il tuo amor.

In Pasquale quei versi avevano scavato, senza che lui lo volesse, una nicchia dentro cui si annidavano nostalgia e amarezza. La stagione del sole e del divertimento, da qualche anno un vacanzificio che iniziava in sella alle Lambrette o dentro le Seicento ritratte dai cinegiornali come un unico serpentone spalmato su autostrade sempre più lunghe, per lui coincidevano con la rovina. La rovina di una carriera, ma ancor prima di un’indagine, stroncata a venti giorni dalla sua conclusione. Il trasferimento decretato ed eseguito alla velocità della luce, da una Padova sempre più cupa all’immobilismo di Ruvo di Puglia, provincia di Bari. E poi l’incriminazione, la sospensione dal servizio e dallo stipendio.

Sapeva, Pasquale, di essere nel giusto e sapeva di essere un poliziotto onesto. Ed era convinto che lo sapessero anche Molino e il questore, quelli dell’ufficio Affari Riservati che avevano fatto a pezzi il suo lavoro e quei delinquenti che voleva incriminare, ma che avevano alla fine incastrato lui. Tuttavia non poteva dimostrare niente di tutto questo. O almeno tutti fingevano che fosse così. Nessuno sembrava credergli. E lui zitto, fedele al suo giuramento, intendeva documentare prove alla mano che i criminali stavano da una parte precisa. Una parte in cui lui non c’era.

Questi pensieri accompagnarono Pasquale per tutto il pomeriggio del 12 dicembre 1969. A chi gli stava intorno aveva dato a credere di prepararsi al Natale ormai prossimo, si era sforzato di fugare la tensione dentro casa fingendo che fosse una fine d’anno come tante ce n’erano state e tante ne sarebbero seguite. E così facendo erano trascorse le ore, era giunto il momento della cena e il telegiornale era iniziato di nuovo.

Edizione delle 21, Paolo Bellucci al microfono.

«Ci sono state esplosioni nel pomeriggio a Milano e a Roma. La più grave è avvenuta a Milano nel salone centrale della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Per lo scoppio quattordici persone sono morte, un’ottantina è rimasta ferita o contusa. Due dei feriti sono gravi. Sembra accertato che sia scoppiata una bomba. Il fatto, per la sua atrocità, per il numero di morti e feriti, è il più grave che abbia colpito Milano in tempo di pace. A Roma, anche qui, in pieno centro della città, ci sono state tre esplosioni. Due ordigni sono scoppiati all’Altare della Patria. Il boato è stato udito in tutto il centro della città. L’altra esplosione di Roma è avvenuta nella sede centrale della Banca Nazionale del Lavoro. I feriti sono più di dieci. Non ci sono vittime. Sentiamo da Milano le ultime notizie».

Il volto di Bellucci lasciò il posto al servizio che iniziava inquadrando la grande scritta luminosa della banca devastata. In sottofondo si sentivano il lamento delle sirene di ambulanze e forze dell’ordine e un brusio costante, voci che senza sostanza parlavano di qualcosa che non si comprendeva più, era solo rumore bianco.

«Molti dei testimoni dicono che erano circa le 4 e mezzo quando nel salone della banca, affollatissimo oggi perché era giornata di mercato, è avvenuta la tremenda esplosione. Un boato e una fiammata hanno letteralmente sconvolto l’edificio. Una buca di circa un metro di diametro si è aperta nel pavimento della parte riservata ai clienti che in quel momento stavano ultimando le operazioni bancarie. I primi soccorsi sono stati portati dai cittadini che a quell’ora si trovavano numerosi nella centralissima piazza di Milano che è a pochi passi dal Duomo. È scattato subito l’allarme alla polizia, ai vigili del fuoco e agli ospedali. Sul posto si sono recate immediatamente tutte la autorità della provincia e il cardinale arcivescovo la cui sede è a pochi passi dalla banca. Nell’aria c’era un odore acre di esplosivo. La maggior parte delle persone che erano presenti ha detto che probabilmente si trattava di una bomba. Tutta la zona adesso è presidiata da carabinieri e agenti di pubblica sicurezza. Il traffico è stato deviato per consentire un rapido movimento dei mezzi di soccorso. Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino e tutti gli spettacoli sono stati sospesi. Le bandiere abbrunate saranno esposte su tutti gli edifici nella giornata di domani. Sono state sospese le illuminazioni natalizie in segno di lutto».

Quando la linea tornò in studio, si interruppe il rumore bianco della strada e Bellucci riprese a raccontare i fatti di quel pomeriggio.

«I feriti delle esplosioni di Roma sono, come abbiamo detto, più di dieci. Secondo i primi accertamenti la bomba scoppiata alla Banca Nazionale del Lavoro era composta da una quantità di esplosivo tra gli ottocento grammi e i due chili. Sono passati otto minuti tra la prima e la seconda esplosione all’Altare della Patria. La prima è avvenuta alle 17.16 e la seconda alle 17.24. I due ordigni che sono scoppiati al Milite Ignoto erano ad alto potenziale. Uno è esploso sulla seconda terrazza davanti alla porta del Museo del Risorgimento. Uno dei battenti è stato scardinato e lanciato a sette metri di distanza. Una signora che si trovava a passare con una Seicento è stata sbalzata in aria e la macchina si è rovesciata su un fianco. È stata soccorsa e condotta all’ospedale. Tutti i vetri della basilica dell’Ara Coeli e del Museo del Risorgimento si sono rotti. All’interno della chiesa sono crollati alcuni pezzi del soffitto istoriato. L’altra bomba era stata sistemata sotto l’asta della bandiera, sotto la seconda terrazza del Vittoriano. Lo scoppio ha stroncato l’asta e ha fatto a pezzi una parte della balaustra. L’altra esplosione di Roma è avvenuto negli scantinati della Banca Nazionale del Lavoro, in via San Basilio, nei pressi di via Veneto. I feriti sono stati medicati al Policlinico. Più precisamente l’ordigno di via San Basilio, sempre secondo i primi accertamenti, sarebbe scoppiato in un passaggio sotterraneo che collega i due edifici posti l’uno di fronte all’altro dove hanno sede gli uffici centrali della stessa Banca Nazionale del Lavoro. Il fabbricato, dove lavorano duemila persone, è stato fatto sgombrare dal personale. Anche qui l’esplosione ha provocato la rottura dei vetri e sono state le schegge a ferire le persone. Nel passaggio sotterraneo i tubi dell’impianto di riscaldamento si sono rotti e l’acqua ha allagato una parte dei locali. Per lo scoppio all’Altare della Patria sono state danneggiate anche molte auto in sosta a fianco del Vittoriano. Per precauzione tutta la zona circostante è stata isolata. Tecnici della direzione di Artiglieria e vigili del fuoco hanno compiuto un ampio sopralluogo. Anche gli uomini della polizia scientifica della questura e i carabinieri sono accorsi per cercare di accertare la natura degli ordigni esplosivi».

Infine le immancabili reazioni dal mondo della politica.

«Il consiglio dei ministri sta per riunirsi a Palazzo Chigi. Il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, ha indirizzato al presidente del consiglio, Mariano Rumor, il seguente messaggio: “L’orrendo attentato che ha seminato la morte a Milano lascia sgomenta la nazione per l’efferatezza del delitto, per la sua mostruosa enormità, per la sua bestiale incoscienza. L’attentato di Milano – dice il messaggio del capo dello Stato – è l’anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata a ogni costo per salvaguardare la vita e la libertà dei cittadini. Tocca alle forze dell’ordine democratico, tocca all’autorità giudiziaria di fronte alla quale giacciono numerose denunce per istigazione ad atti di terrorismo restituire alla legge voluta dal popolo l’assoluta sovranità. Tocca ai cittadini assecondare l’opera della giustizia e delle forze dell’ordine democratico, della difesa della vita contro la violenza omicida. A lei, Onorevole Presidente, e al ministro dell’interno, Franco Restivo – dice il presidente della Repubblica – esprimo tutta la mia solidarietà per l’azione che il governo intraprende allo scopo di reprimere inesorabilmente questi atti criminali rivolti a sovvertire il libero e democratico ordinamento del nostro Paese e La prego di porgere le commosse condoglianze a nome della nazione e mio personale alle famiglie delle vittime”».

L’innocenza era finita, perduta per sempre. Pasquale non se ne rendeva ancora pienamente conto, ma le parole che aveva appena ascoltato gli piombarono addosso come se una scheggia avesse raggiunto anche lui, a 850 chilometri di distanza da quella banca milanese. Prima gli venne quasi da ridere a sentire le parole di Saragat, così pompose e al contempo così vuote rispetto alla vera natura di ciò che chiamava «libero e democratico ordinamento del nostro Paese». Poi, però, quella risata morì prima di affiorare e Pasquale si portò le mani al volto mentre da qualche parte nella sua testa risuonarono le parole che aveva scritto solo pochi mesi prima, in uno dei due memoriali inviati al giudice istruttore di Padova, Francesco Ruberto: «Erano imminenti degli attentati».

(Questo brano è tratto da Attentato imminente, Stampa Alternativa, 2009, la storia del commissario Pasquale Juliano)


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