Cari Ospiti del Salotto,
mi trovo a tarda ora intenta a scrivere un articolo, trascinata dalle recenti emozioni e dalla scoperta di una somiglianza che non avrei potuto sospettare prima di questa esperienza.
Questo pomeriggio sono tornata al cinema dopo tanto tempo, come sempre stimolata dalla mia insaziabile curiosità, stavolta attirata da un film tutto italiano su un genio italiano, una coincidenza così rara oggigiorno da rendere curioso persino un agnostico!La mia nota reticenza verso il cinema italiano contemporaneo è il risultato naturale di un’esperienza visiva che pare incapace di equilibrio, tra un opprimente ritratto del volto peggiore dell’Italia e fatue pellicole di serie Z, le quali – se possibile – completano il dipinto con pennellate opache e futili in superficie. Ma a nulla è valso il mio, sebbene giustificato, pregiudizio, davanti alla possibilità di conoscere un punto di vista diverso sulla figura di Giacomo Leopardi, protagonista immenso de ‘Il Giovane favoloso’ di Mario Martone, un viaggio nell’infinito animo di uno dei poeti più amati, eppure discussi di tutti i tempi.
Non è passato un minuto dall’ultimo verso de ‘La Ginestra’, con la sua eco eterna nella mia mente, che ho pensato di correre a casa e scriverne ancora, finché quella rivelazione si protraesse nel mio animo come quelle emozioni pulsavano ancora nelle vene.
Il Leopardi di Martone
è un’opera magnifica di sensatezza e passione.
Una contraddizione esatta perché ridimensiona nella sua fragile umana condizione la figura del poeta e, così facendo, palesa l’origine fisica della sua brama di vivere, per troppo tempo scambiata per malessere e pessimismo cronico.
Questo Leopardi, interpretato magistralmente da Elio Germano, non ha quasi niente in comune con le pesanti, didattiche lezioni del Liceo. Questo Leopardi non è un poeta che si diletta a criticare tutto e tutti avvilendoci con un pessimismo degno del più feroce nichilista.
Questo Leopardi è un piccolo uomo, consapevole dei propri limiti fisici e caratteriali, quanto della vastità del proprio pensiero; né ambizioso, né presuntuoso, né tantomeno disfattista. Egli è tutt’altro che ‘infelicissimo’, come gli amici letterati del circolo fiorentino lo definiscono con insolenza svelata.
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.” [da ‘L’Infinito’ di Giacomo Leopardi –1826)
La villa di Recanati è, prima, il luogo migliore dove incamerare conoscenza, nelle stanze sempre abitate della sua grande biblioteca; poi, la prigione dalle pareti di libri ormai note da cui tentare la fuga verso l’esterno, verso quel mondo che essa stessa descrive nei ventimila volumi, tra permessi e proibiti, che Giacomo conosce come i palmi delle sue mani.
“Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia.” [Leopardi in una lettera allo scrittore Pietro Giordani]
E Giacomo tenta la fuga con la complicità del fratello e della sorella, fallisce ma… tenta; pur nella sua già minata condizione di salute, egli, prima o dopo, taglia di netto il cordone ombelicale, per tuffarsi nella realtà senza timore, esortato da quel coraggio incosciente che solo la brama di vivere è capace di ispirare. Lui, il primogenito, il preferito dal padre, il menomato, il debole di membra; lui e non il fratello più giovane e in salute, né la sorella, istruita e sua grande estimatrice. Lui, Giacomo, rompe gli argini per riversare l’immensità del proprio animo nel mondo.
Una sensibilità fuori dal comune e una curiosità congenita per ogni aspetto della realtà si sommano nel suo talento – troppo spesso invidiato – di tradurre la passione in versi.
La fitta corrispondenza con Pietro Giordani, primo tra i suoi ammiratori prima e la stretta amicizia e ambiguo affetto con Antonio Ranieri dopo, sono i due binari su cui Martone fa correre la vita di un Leopardi anticonformista, fuori dagli schemi pianificati dai suoi parenti che lo volevano confinato alla carriera ecclesiastica, piuttosto orientato su opposti lidi, in una ricerca perenne dei luoghi dove la vita è più intensamente vissuta, dove persino il sole, il mare, la natura e i suoi elementi sembrano manifestarsi con maggiore potenza.
L’esplorazione dell’amore fisico è un desiderio inespresso, eppure Giacomo esaudisce pienamente la forza di quelle emozioni, ama attraverso gli occhi e vi riesce in modo così sublime da rendere superfluo, persino indegno, l’atto fisico“Amava ad occhi chiusi, senza vedere chi fosse l'amato. Non c'è favola più bella che 'Amore e Psiche'.” [dal film]
La critica ufficiale ha demolito in gran parte il punto di vista di Martone, aggrappandosi a sterili tesi didattiche che, come nell’asettico insegnamento scolastico, raccolgono soltanto informazioni obsolete e pareri arbitrari, i veri ostacoli alla comprensione della poesia in genere e dell’opera di Leopardi, in particolare.
Mi trovo, invece, d’accordo con il regista nel mostrare al pubblico l’umanità imperfetta del poeta, l’origine autentica del suo talento, perché la Poesia non è un testo di matematica comparata, né un insieme di versi da tradurre in prosa per capirne il senso. La Poesia è nella coincidenza tra voce e sensi, è nel fluire sincrono di parole ed emozioni, fa uso della conoscenza dei testi, ma la sorgente è nel punto più intimo dell’anima.
E Mario Martone ce lo ha ricordato.
"In cosa consiste il vero? – Consiste nel dubbio." [dal film]La scoperta di qualcosa che è sempre stato lì, davanti ai nostri occhi, accecati dall’analisi apparentemente utile dei testi scolastici, intimiditi e come vincolati dagli obblighi della lezione, ci hanno impedito di sentire la Poesia e, com’è logico, di comprenderne la vera natura.
In quella rabbia urlata di Elio Germano,
ho ascoltato il Leopardi forse per la prima volta.
"Sovente in queste rive,[da ‘La Ginestra’ di Giacomo Leopardi – 1836]
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo?"