Cassoni del Mose, controsoffitto della metro di Roma: eventi che si verificano nelle due capitali della criminalità elegante, quella che si mischia a quei buzzurri delle mafie, ma è appena sfiorata da processi e pene, dimostrano che opere e lavori, non sempre utili, vengono realizzati con materiali scadenti, che manca la necessaria manutenzione, che appalti opachi hanno premiato la cattiva qualità, che imprese di cavalieri del lavoro, cordate di eccellenze agiscono con gli stessi criteri con i quali hanno vinto e si sono prodotti nel Terzo Mondo, accelerando il processo di colonizzazione interna.
E intanto, mentre i romani infuriati minacciano disubbidienza, mentre il sindaco Marino si imbuca nel seguito pastorale, da vero clandestino, il premier menimpippo sta a New York a discettare di politica estera – ma guai se qualcuno a bruciapelo gli domanda le capitali – a fare l’occhietto a Soros e a perorare la causa dell’Italia, che grazie alle sue riforme sarà leader dell’Ue.
Per carità non gli si può dar torto, non è certo in un consesso che si meraviglia di corruzione, che si stupisce dell’egemonia delle lobby, che soffre per un eccesso di burocrazia che colpisce i disperati d’oltre frontiera, che si rammarica per incauti acquisti di equipaggiamenti bellici, che si duole per un welfare ridotto allo scheletro, il nostro ovviamente, che si preoccupa per l’onnipotenza della finanza e per l’invadenze di dispositivi e misure di sorveglianza e controllo sui cittadini, malgrado il brodo di giuggiole nel quale in pari misura sono stati immersi tutti durante la visita del Papa.
Figuriamoci se li colpisce la storia di una autostrada deserta come quelle dell’Arizona, che doveva essere interamente finanziata dai privati e che invece costerà a noi, a noi contribuenti, almeno 1,7 miliardi. O se, visto il loro attivismo, nel fratturare interi territori per scovare gas a caro prezzo e con formidabile pressione sulle risorse, li turba più di tanto che venga trivellato l’Adriatico per tirar su con la cannuccia un quantitativo di oro nero pari a meno di 2 mesi dei consumi annuali nazionali, mentre quell’altro petrolio, come viene definito il nostro patrimonio artistico e culturale dai vari cazzari presenti in tutti i contesti, giace in stato di abbandono confezionato come balle di rifiuti per essere acquisito dai loro amici, famigli, finanziatori (anche si direbbe, di chi rade al suolo Palmira) di qui e d’oltreoceano.
Sapete che non sono una fan degli Stati Uniti, che accuso di aver colonizzato col loro modello economico, finanziario e di consumo anche il nostro immaginario, affibbiandoci patacche sotto forma di fondi e derivati e imponendoci un sogno rivelatosi un incubo infernale.
Ma amaramente mi tocca osservare che gli imitatori nostrani sono peggio, che sono più realisti del re, come spesso succede ai servi sciocchi che copiano i vizi che non possono permettersi. E che, pur sapendo che alla perfetta democrazia in America credeva solo Tocqueville, che peraltro era un turista, la classe dirigente in Italia, comandata a bacchetta da dai dignitari dell’impero, è riuscita nell’impresa di spodestarla, consumarla, sbeffeggiarla, paradossalmente, proprio con gli strumenti che quello che pareva essere il miglior sistema mette a disposizione di cittadini per favorire partecipazione, consolidare legalità, garantire diritti e riaffermare giustizia e uguaglianza.
Dalle leggi ad personam, siamo passati a leggi al servizio di categorie imprenditoriali, lobby, padronati che non producono, padronati che conoscono solo la forma di azionariato, padronati che vantano come competenza la pratica speculativa, aziende che esibiscono anche in sede di appalto la professionalità e efficienza accertata in corruzione, opacità, sfruttamento.
E se non basta una legge in corso di approvazione, quella che tra i primi firmatari fa figurare insieme al trombatissimo Bray, quell’Orlando passato fugacemente all’ambiente a sua insaputa, per trasferirsi più propriamente a metterci il bavaglio, e non ultimo, l’allora ministro Lupi – e basta la parola – ecco che dal territorio sale un moto a un tempo di preoccupazione e di spirito di collaborazione.
Il provvedimento in questione è quello in materia di Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato, ddl presentato nel febbraio 2014 e ora in corso d’esame in Commissione. Ci toccherà rimpiangere il governo Monti, perché la proposta dell’allora ministro Catania era un modesto e ciononostante nobile tentativo di riempire un vuoto normativo che via via era stato colmato di cemento o oggetto di un tentativo ancora più tombale sotto forma di una legge firmata Lupi, sempre lui, dove il suolo aveva mera vocazione edificatoria, senza la minima attenzione per la tutela del paesaggio, l’agricoltura, l’assetto idrogeologico, in nome di “diritti edificatori” commerciabili. Rimosso Monti, della proposta Catania resta la relazione introduttiva, densa di dati inquietanti e quindi promettenti di misure razionali e severe, mentre l’articolato conserva i «diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica », commerciabili senza limiti, addirittura incrementati da ulteriori “premialità, compensazioni e incentivazioni”. Rilancia l’oscena ipotesi che i Comuni, in cambio di aree per l’edilizia sociale, attribuiscano ai privati ulteriori «quote di edificabilità», per giunta trasferibili a piacere, perfino fuori Comune. Permette in cambio di aumenti “commisurati” il cambio di destinazione d’uso così che qualsiasi territorio diventa edificabile, e i relativi diritti possono essere sommati e trasferiti ad libitum.
Ma ancora non basta ed ecco che l’operosa Confindustria di Cuneo – ma come, nemmeno loro si fidano di Renzi? – indice un’occasione di studio e di confronto e lancia la sua proposta, ispirata alla irrinunciabile necessità di riavviare lo sviluppo del Paese. La ricetta è semplice e non consiste nel compere scelte più adulte e razionali, come il recupero dell’esistente, l’impegno nella manutenzione e quello ancora più irrinviabile nella salvaguardia e nel risanamento idrogeologico. Macché: nella consapevolezza che questa nuova norma nazionale rappresenti un autentico pericolo per l’imprenditoria, con «inevitabili ricadute e conseguenze negative sulle future possibilità delle aziende di ampliare o modificare i loro spazi produttivi», impedendo ogni normale forma di crescita aziendale, l’associazione industriale ipotizza una “soluzione percorribile” per le aziende che si trovano in tale situazione, e che “potrebbe essere quella di impermeabilizzare il terreno edificabile non ancora costruito per evitare che diventi agricolo”.
Volete una traduzione nella lingua ormai dimenticata della legalità e dell’onestà? Presto fatto: difendete la vostra terra coprendola con uno strato di cemento, conformemente alle vostre possibilità, che si sa la difesa del suolo costa cara, così se quella legge iniqua entrerà in vigore, i vostri possedimenti “ormai non più naturali, non avranno più i parametri previsti per la tutela dei suoli agricoli”.
Mani sulla città? Ormai le mani sono dappertutto, anche sui campi dell’Italia non più felix e il cemento è un materiale che si presta a tutti gli usi, dighe, tunnel, piloni e anche a seppellire le speranze di pulizia, integrità e giustizia.