di Baz Luhrmann (USA, 2013)
con Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire, Joel Edgerton, Isla Fisher, Elizabeth Debicki, Jason Clarke
VOTO: ****/5
La frase, non certo insignificante, è della nipote di Francis Scott Fitzgerald, pronunciata all'anteprima americana del film, ed è sicuramente la miglior recensione possibile e anche la migliore risposta per una critica cinematografica che, come al solito, si è rivelata molto miope verso Baz Luhrmann e la sua idea di cinema assolutamente anticonvenzionale e personalissima. I critici che hanno snobbato il suo Gatsby sono gli stessi che già (quasi) vent'anni fa distrussero Romeo+Giulietta, prima che questo film diventasse il manifesto della X-generation dell'epoca. Sono gli stessi che trattarono con altrettanta sufficienza il suo vorticoso Moulin Rouge, salvo poi accorgersi (sempre molto tardi) che quel film riuscì a resuscitare un genere abbandonato e dimenticato come il musical... e sono anche gli stessi critici che, cambiando genere e regista, a suo tempo maltrattarono il meraviglioso Marie-Antoinette di Sofia Coppola, autentico delirio-pop che celava sotto lo sfarzo dei colori pastello e la colonna sonora rockeggiante la tragica malinconia di una donna sola e dal destino segnato. Esattamente come Gatsby.
Questo per dire che ogni tanto i film vanno giudicati anche col cuore e per le emozioni che sprigionano, e non solo con la testa. Dire che il Gatsby di Luhrmann è un film eccessivo, ridondante, barocco, dilatato, è come dire che l'acqua è bagnata. Questo è Baz Luhrmann, signori. Prendere o lasciare. E noi ce lo teniamo ben stretto questo regista australiano che ha la capacità innata di costruire pellicole magnificamente esagerate, caotiche, deliranti, dove però alla fine tutto combacia per miracolo, per un equilibrio quasi divino che le porta a diventare irresistibilmente dei 'cult'. Fateci caso: ogni film di Luhrmann è tanto amato dal pubblico quanto più è alto il disinteresse dei critici e degli addetti ai lavori. Non parlo degli incassi al botteghino (che comunque sono più che buoni) ma proprio dell 'indice di gradimento' dei suoi film: esistono pochi registi al mondo così amati dagli spettatori come Baz Luhrmann, e il motivo è molto semplice: perchè ogni sua opera riesce a regalarti emozioni 'violente', forse anche ingenue, ma che siamo ben lieti di cogliere e farci trasportare, come un bambino che vede per la prima volta l'immensità del mare... è una cosa 'grande', sconvolgente, fa quasi paura, ma allo stesso tempo ci accorgiamo di adorarla.
Scusate la lungaggine. E' ora di parlare di Gatsby. In tempi non sospetti dicemmo che difficilmente sarebbe stato possibile ricavare un brutto film da una storia così bella e tragica, da un romanzo così significativo e maestoso, che ha chiuso un'epoca: quella del Sogno Americano. E infatti Luhrmann ha l'intelligenza di portare sullo schermo una versione quasi filologica del testo, assolutamente rispettosa dei contenuti (tranne una piccolissima ma sostanziale differenza, di cui diremo dopo). Naturalmente, lo fa a modo suo: cioè adattando al testo una confezione scintillante e aggiornata ai gusti del nostro tempo. Per chi conosce e adora Luhrmann, era quasi naturale aspettarsi che nelle sue mani l' 'Età del Jazz' sarebbe diventata un misto di hip-hop, musica elettronica e montaggio vertiginoso: del resto, parliamoci chiaro, che senso avrebbe avuto rifare per l'ennesima volta Il Grande Gatsby (questa è la quarta versione cinematografica) con le atmosfere e il linguaggio degli anni '20? Magari ne sarebbe venuto fuori un film politicamente corretto e splendidamente classico, ma a quel punto chi ne avrebbe davvero sentita la necessità?
Invece il Gatsby di Luhrmann è un'altra cosa. Un film allo stesso momento classico e attuale, affascinante ma 'scatenato', sfarzoso e violento insieme: il regista sa bene che la storia raccontata da Fitzgerald è una storia universale, adattabile a tutte le epoche e in tutte le forme, e allora giustamente lascia scorrere la trama senza stravolgerla, dedicandosi invece all'atmosfera, a quel mondo 'pazzo' e visionario che tanto adora e che tanto sorprende noi spettatori, e che trasforma la New York sobria e decadente di inizio secolo in un rutilante e sfrenato parco giochi (il cui ricordo va subito ad Aurora di Murnau) dove nuovi e vecchi ricchi sperperano, alla faccia di chi vive lungo le strade sterrate, tanti di quei soldi che servono solo a mascherare una tragica aridità d'animo, un autentico trionfo dell'effimero e del pessimo gusto, per poi tornare a rintanarsi nelle loro sontuose dimore di campagna, dove inevitabilmente vengono fuori i veleni e l'insensatezza dei rapporti. Coloro che sostengono che Luhrmann non è riuscito a rendere fino in fondo lo spirito del libro, forse hanno le bende agli occhi o un cuore artificiale: basta uno scossone di tenda, il rombo di un motore, un telefono che suona per rendersi conto del disagio latente di tutti i protagonisti...
In questo contesto si staglia, giganteggiando, la figura di Jay Gatsby, forse l'ultimo eroe romantico della letteratura americana. Personaggio misterioso, ambiguo, discutibile, eppure tremendamente affascinante, cui Leonardo Di Caprio ne dà una versione da antologia: lui non interpreta Gatsby, lui E' Gatsby, e dopo averlo visto in questo ruolo davvero non riusciamo ad immaginare altri attori in grado di impersonare questa figura leggendaria e tragica, simbolo di un'epoca (e di un paese intero) che dopo la Grande Illusione si stava avviando, senza accorgersene, verso un declino ben nascosto da lustrini e paillettes. Forse è lo stesso Gatsby (quello del libro) a recitare una parte: quella di un gentiluomo nobile e straricco, dai modi eleganti e affabulatori, sotto la cui scorza si nasconde una persona inquieta e disperata, terribilmente sola, disposta a rinunciare a qualsiasi cosa (anche alla vita stessa) pur di riconquistare la donna che ama. E che non intende arrendersi al tempo che passa, nemmeno di fronte all'evidenza ("così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato").
Detto di DiCaprio, un plauso anche agli altri attori protagonisti, in particolar modo la bella Carey Mulligan: una Daisy fascinosa e fragile al punto giusto, ben spalleggiata dalle altre figure protagoniste (molto bella anche la sconosciuta Elizabeth Debicki, che interpreta Jordan Baker). Unico sottotono, forse, Tobey Maguire, ma più per faccia e fisico piuttosto che per la recitazione.
Resta di dire solo un'ultima cosa, cui accennavo sopra. L'unica 'licenza poetica' che Luhrmann (anche sceneggiatore insieme a Craig Pearce) si è preso nello scrivere il film. Che inizia diversamente rispetto al libro, con un Nick Carraway depresso e alcolizzato che ricorda le vicende di quell'estate nello studio di uno psicanalista, facendo partire il lungo flashback... differenza apparentemente di poco conto, ma provate a pensarci un po': che cosa significa la figura dello psicanalista? Quali sono le condizioni mentali di Nick? Nick è l'anello di congiunzione tra noi e la storia, che noi conosciamo solo perchè è lui a raccontarcela in prima persona. Ma Nick è lucido? Sono davvero ricordi? Oppure, con una trovata che ricorda tanto C'era una volta in America, è solo la sconnessa immaginazione di un pazzo?