Il Grande gioco della Repubblica Centrafricana

Creato il 30 novembre 2013 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Ciò che sta succedendo nella Repubblica Centrafricana presenta aspetti inquietanti e addirittura misteriosi. Accanto ad una situazione umanitaria disastrosa (ampiamente denunciata da Amnesty International e documentata anche grazie all’uso di immagini satellitari), gli eventi susseguitisi nelle ultime settimane restituiscono un quadro molto più ingarbugliato di quanto appariva alcuni mesi fa.

I fatti

Come sappiamo, la rivolta è iniziata il 10 dicembre 2012, quando la formazione Séléka (alleanza, in lingua sango), una coalizione di gruppi ribelli di cui facevano parte anche molti dei combattenti precedentemente coinvolti nella guerra civile degli anni Duemila, hanno accusato il governo del presidente François Bozizé di non voler rispettare gli accordi di pace firmati nel 2007 e nel 2011. La coalizione, partita dal nord del Paese, ha via via occupato importanti città nelle regioni centrali e orientali fino a giungere nella capitale Bangui il 24 marzo 2013, obbligando Bozizé a lasciare il Paese – il 31 maggio l’ex presidente sarebbe stato incriminato per genocidio e crimini contro l’umanità.

Il 18 aprile, il capo delle milizie Séléka, Michel Djotodia, autoproclamatosi presidente, è stato riconosciuto come il capo di transizione di governo nel corso di un vertice regionale a N’Djamena (capitale del Ciad, sostenitore occulto dei ribelli). Ma il neo presidente non è riuscito a riportare il Paese alla normalità, la cui situazione è invece precipitata in estate. Oggi i rapporti di osservatori esterni parlano di gravi violazioni dei diritti umani (compreso l’uso di bambini soldato), stupri, torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate nonché della presenza di oltre 460.000 sfollati: il 10% su una popolazione di 4,6 milioni di abitanti.

In risposta alle violenze perpetrate da Séléka, in varie zone del Paese hanno fatto la loro comparsa dei gruppi cd. di Autodifesa chiamate “anti balakas” (anti machete) con il compito di respingere la presenza dei miliziani dai rispettivi territori, soprattutto nell’ovest.

Le domande

Tali sviluppi hanno avuto un’evoluzione molto strana rispetto alle premesse. Le milizie Séléka non dovrebbero più esistere. Il loro obiettivo era obbligare il governo di Bozizé a rispettare gli accordi di pace oppure a lasciare il potere in caso di rifiuto, dopodiché il neo presidente Djotodia le ha ufficialmente sciolte. Da allora, invece, le loro fila sono state ingrossate da criminali comuni e mercenari provenienti da Ciad e Sudan e, soprattutto, circa 6.000 bambini soldato. Oggi Séléka conta circa 20.000 effettivi.

Anche i gruppi di Autodifesa hanno fatto registrare un salto di qualità. Recentemente hanno conquistato l’aeroporto di Bouar, nel sudovest del Paese, andando dunque ben oltre quella che era la normale difesa dei propri villaggi. In questo caso hanno ingaggiato battaglia con milizie molto ben armate e preparate, vincendo.

Inoltre, a luglio l’Unione africana ha annunciato l’invio di una forza di peacekeeping (chiamata MICOPAX: 3500 soldati previsti, appena2600 quelli arrivati alla fine di ottobre) per proteggere la popolazione civile ma da allora le violenze sui civili sono aumentate, anziché diminuire.

Così le domande si accumulano: perché la forza multinazionale non è intervenuta? Perché Séléka è ancora attiva e armata? E infine, come si spiega il mutamento dei gruppi di Autodifesa da formazione volontaria ad organizzazione paramilitare? Chi c’è dietro gli uni e gli altri contendenti?

La partita di Bangui

L’impressione è che nella Repubblica Centrafricana si stia giocando una partita che va ben oltre le forze in campo.

La partita vede impegnata innanzitutto la Francia, che aveva scaricato Bozizè colpevole di aver manifestato l’intenzione di cedere diritti di prospezione e sfruttamento di materie prime minerarie a potenze esterne (in primo luogo la Cina) ma anche ad una potenza coloniale come il Sudafrica, che aveva già un contingente di militari sul posto.

Lo scorso gennaio, con la scusa dell’imminente operazione Serval in Mali, a cui negli stessi giorni si sovrapponeva l’improvvisato (quanto demenziale) tentativo di liberare un agente segreto prigioniero in Somalia, l’Eliseo ha tacitamente abbandonato Bozizé al proprio destino, di fatto appoggiando l’avanzata di Séléka. Già qualche mese dopo, però, i francesi si sono resi conto che i guerriglieri sono in realtà una accozzaglia di movimenti più che rissosi e soprattutto portatori di interessi esterni.

Tutto questo a scapito proprio di Parigi, ex madrepatria, che ha sempre attinto alle ricchezze centrafricane a prezzi di favore ma che adesso rischia di perdere posizioni. Da qui la decisione di Hollande di spedire un contingente di oltre 1.000 uomini per cercare di ristabilire l’ordine.

La conseguenza più preoccupante di tale coinvolgimento esterno è che, accanto alle più tradizionali tensioni interetniche, si registra anche un netto aumento degli scontri tra gruppi religiosi. Si tratta di un fatto nuovo in Centrafrica, dove la maggioranza della popolazione è cristiana, come lo erano Bozizè e tutti gli altri presidenti che l’avevano governata fin dall’indipendenzaLa maggior parte dei miliziani di Séléka, così come il presidente Djotodia, sono invece musulmaniMolti di loro rispondono ai richiami religiosi che arrivano da attori più o meno occulti come alcuni Paesi arabiE dove ci sono le forze dell’integralismo islamico, ci sono anche lauti finanziamenti – quasi sempre in partenza dal Golfo – a cui, in questo caso, si aggiungono il sostegno militare logistico di attori regionali come il Sudan e il Ciad. 

Ancora, lo scenario vede la presenza, nemmeno troppo mascherate, delle potenze emergenti asiatiche e della principale potenza continentale, il Sudafrica, che ha forti interessi in Centrafrica - primo fra tutti: strappare il controllo del mercato dei diamanti dalle mani di Séléka. “Soluzioni africane per problemi africani” è il mantra di Pretoria, la cui agenda odierna è però diversa da quella che aveva ai tempi di Mandela, in quanto più interessata alle risorse naturali che al progresso dei diritti umani nel continente. Così la mossa del Sudafrica è letta come un’azione di contrasto alla presenza militare francese nell’Africa subsahariana, dove Parigi gioca ancora un ruolo dominante in quella che fu la Françafrique.

E’ infine da notare come la reazione delle Nazioni Unite sia praticamente nulla, se si eccettua la proposta del Segretario generale Ban Ki-moon di inviare una missione di peacekeeping nel Paese.

Niente di nuovo sotto il sole d’Africa, dove le guerre si fanno come al solito per procura e le forze locali sono solo comparse.