Quei "geniacci" dei Coen, canaglie di autori straordinari e cineasti sempre pronti a ribadire la loro grande, inconfondibile, "autorialità". Dal lontano 1984, quando al Sundance Film Festival si aggiudicano il Premio della Giuria per l'esordio di Blood Simple - Sangue facile, ne abbiam visti di film(oni) firmati Coen. Pubblico e critica quasi sempre in sintonia nel promuovere la brillante filmografia di questi due registi, sceneggiatori, produttori e montatori statunitensi, come una delle più originali e sofisticate del cinema contemporaneo. Senza badare a ristrettezze di genere i fratelli Coen vantano la straordinaria dote di barcamenarsi, senza vacillare, tra cinema d'autore e commedia nera (Ladykillers 2004), per passare poi tra i più classici thriller drammatici (Non è un paese per vecchi 2007), al western (Il Grinta 2010) fino ad esplodere in prove ineccepibili dal sapore "nichilista", e a tratti surreale.
Il Grande Lebowski (1998), la cui storia come lo stesso titolo, si ispira in parte a Il Grande sonno di Raymond Chandler (già fonte per Hawks nel 1946), è una commedia originale e grottesca. Portatrice di messaggi e ideali di una vita basata sul "prendila come viene", tra una partita a bowling e un bicchiere (più di uno in realtà...) di White Russian. Dalla cura certosina prestata alla psicologia dei personaggi, su ognuno dei quali si potrebbe discutere all'infinito, e soprattutto una sceneggiatura che fa innamorare lo spettatore fin dalle prime battute (Lo straniero che parla, introduce e conclude la storia). In realtà dalla primissima sequenza, quella in cui la voce narrante ci prepara e scommette sul fatto che di lì a poco anche noi, avremmo visto in "Drugo", quello che in un certo senso diventa, l'uomo giusto e al momento giusto. Trascinati all'interno della storia, come uno strano gomitolo arboreo spostato dal vento.
Siamo a Los Angeles, anni '90. Jeffrey Lebowski (Jeff Bridges) si fa chiamare Drugo (Dude nella versione originale) e potrebbe esser visto come l'uomo più pigro del mondo. Uno talmente pigro da andare al supermercato in vestaglia e pantofole. Uno che con assoluta tranquillità si vede entrare due tizi in casa a reclamare soldi, il tutto per un beffardo equivoco che vede il povero protagonista, omonimo di un ricco magnate. Non appena i due si rendono conto dell'effettivo malinteso, lasciano l'appartamento, non prima però, di aver marchiato il territorio come fanno i cani. Sarà proprio la "questione tappeto" a spingere Drugo in un'avventura, forse la prima della sua vita, ai limiti dell'action thriller. Il malloppo in mano, un'auto rubata da ritrovare, un rapimento (o presunto tale) e un partner dei più irascibili, fissato col Vietnam. Uno straordinario John Goodman.
Un grande film, come il Drugo che lo incarna e grandi sequenze che scuotono i punti deboli dell'uomo. La vita, la morte, la fiducia, la competizione e gli "strascichi" che ogni buon allievo arruolato nell'esercito della vita si porti dietro. Perché la vita è così. A volte sei tu che mangi l'orso e a volte è l'orso che mangia te...