Non che nell’adattamento cinematografico cercassi il libro in sé; per quello basta rileggere Fitzgerald, paragonare le varie traduzioni, prima con l’originale e poi fra loro, e sollazzarsi in simili atti da feticisti. Sullo schermo cercavo l’emozione di quelle pagine. Passano in secondo piano l’ambientazione in stile, la musica d’epoca, l’aderenza ai dialoghi e tutto il resto se manca il mood del romanzo.
Non ho giocato a “trova l’intruso”, né ho elencato gli elementi lontani dall’art déco, forte della visione dell’adattamento precedente (1975), con Robert Redford, in cui tanta meticolosa aderenza all’ambientazione non è stata sufficiente per dare un’anima al film.
La fedeltà cinematografica che speravo di trovare era verso la disarmante irrazionalità di quell’amore tragico, verso l’oscurarsi di quella luce verde che si spegne per sempre nel momento esatto in cui la si afferra. Ho sempre pensato che il messaggio principe de Il grande Gatsby fosse questo: attenzione a quello che desideri, “vecchio mio”!
Gatsby è l’unico a non conoscere il segreto di Pulcinella. Nessuno ha il coraggio di rivelargli che il passato non si può rivivere, non senza altro dolore. Certo non Daisy, incapace perfino di prendersi la responsabilità dei suoi capricci, impegnata com’è a passare da un’isteria all’altra, con la garanzia di cadere sempre in piedi e di non mettersi mai in gioco veramente.
Questa claustrofobia c’era nel film di Luhrmann grazie, soprattutto, alla convincente interpretazione di Leonardo Di Caprio, il quale trasferisce a Gatsby tutto lo charme che possiede; un fascino maturato nel tempo ma non meno irruente. Risulta credibile nelle sue tenere insicurezze, come nelle ingenue certezze. Penso alla nervosa preparazione prima di incontrare Daisy per il tè, all’aplomb che si crepa nella triangolazione con Tom in albergo prima dell’investimento di Myrtle, alla lucidità che traballa mentre è nascosto fra le siepi sotto la finestra di Daisy. Gli occhi sognanti di Tobey Maguire sono un’ottima spalla e ben colorano Nick nella sua combattuta e sincera adulazione per Gatsby. Risulta anche comico mentre, come un’imbarazzata suocera vittoriana, sorseggia il tè sul divano in mezzo ai due innamorati appena riuniti.
Quindi, no, non ho urlato lo scandalo quando ho trovato Nick con i nervi a pezzi in un centro di recupero per alcolisti, imbarcato nella scrittura terapeutica, il cui risultato è il manoscritto de Il grande Gatsby. L’unico appunto è sulla location, troppo simile al castello di Hogwarts, con gli zoom su Nick alla finestra che pare più impegnato a scrutare nella neve i dissennatori dell’estate del 1922 che non a dimenticare la bottiglia. Escluso questo omaggio involontario a Harry Potter, non credo affatto che la cornice narrativa scelta da Luhrmann abbia fatto un torto al romanzo. Anzi, considerando che lo stesso Fitzgerald era un noto alcolista e fu anche vittima di un brutto esaurimento nervoso (narrato nel racconto Il crollo, del 1936), risulta un espediente in tinta con i toni dell’opera.
Né le mie orecchie si sono ribellate alla colonna sonora contemporanea. Perché, il testo di Young and beautiful, scritto appositamente da Lana Del Rey per il film, non era all’altezza? Non c’è forse Gatsby in quel «pretty face and electric soul»? La canzone fa da sfondo a una sequenza magnifica, che ricorda lo sguardo poetico di Bertolucci: il primo pomeriggio di Daisy nella magione di Gatsby. I due che sembrano volare da una stanza all’altra seguiti dagli specchi, ballano stretti, si tuffano da una chiatta, prima di seppellirsi sotto i lini pastello di Brooks Brothers che piovono dalla cabina armadio – in stile Sex and the City – di Gatsby.
Non mi sono neanche strappata i capelli a vedere le fontane di West Egg piene di zebre gonfiabili e i musicisti con i fez in testa a bordo piscina! Insomma, “orgiastica” è una parola che ha usato lo stesso Fitzgerald. Glamour, divertimento sfrenato, bicchierate in hotel, festini alcolici, incidenti. Il regista visionario di Romeo + Juliet ci ha soltanto fornito un codice attuale per poter sentire a fondo il brivido selvaggio dei ruggenti Anni Venti.
Se il grandeur di Gatsby è eloquente nei fuochi d’artificio, i dopo festa inscenati da Luhrmann parlano della sua malinconia. Rimasto solo con gli invitati collassati negli ampi saloni comunicanti, i flûte che galleggiano in piscina, aspetta l’alba, dispiacendosi che, ancora una volta, non sia venuta l’unica persona che aspettava.
Anche il tributo a NYC, capitale della perdizione, è pagato. Ci si arriva da Long Island, attraversando le grigie lande sacrificate ai vizi della metropoli, dove i visi sono sporchi di carbone e grasso di motore e la gente è disperata (vedi Wilson). Si sfreccia sulle decappottabili tra sorpassi vertiginosi e autoradio a tutto volume. Oppure si viaggia sudati su caotici vagoni. Poi ci si perde nel ventre molle e lascivo dell’acciaio verticale di New York, con gli affanni di Wall Street e il gangsterismo che detta legge. Prima di oggi, dovendo scegliere un’immagine evocativa del romanzo, avrei selezionato la scena canonica, presente nel film del 1975 e ripresa anche da Luhrmann: Gatsby in piedi sul suo molo, di notte, che cerca di afferrare la luce verde del pontile di Daisy, al di là della baia.
Il regista australiano ce ne regala un’alta, esteticamente perfetta e altamente simbolica: Di Caprio con un costume da bagno intero, come uscito dalla pubblicità di un profumo francese, che si tuffa in piscina prima che venga svuotata per l’autunno; è finita l’estate, gli alberi cominciano a perdere le foglie e la situazione con Daisy si è complicata irrimediabilmente. Eppure, in quel momento, Gatsby è ancora convinto che ne sia valsa la pena di tutto, che Daisy lo chiamerà, che lei non abbia mai amato Tom. C’è una sensazione sospesa, gravida di un’attesa che verrà premiata. Questo è l’omaggio più grande che si poteva fare a Gatsby, l’uomo che era convinto di poter ripetere il passato: «Rimetterò tutto esattamente com’era, vedrai», aveva detto a Nick, parlando di Daisy, qualche sera prima dell’ultimo tuffo.
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