Il grande perdono. Bonifacio VIII e il primo giubileo

Creato il 22 gennaio 2012 da Senziaguarna

di Renato Mambretti

«E fu la più mirabil cosa che mai si vedesse» scriveva Giovanni Villani, un cronista del tempo, descrivendo il Giubileo indetto dal Papa nel 1300. Il primo della storia, radunò a Roma una folla immensa. Segno di fede e di amore alla Chiesa.

Giotto - Bonifacio VIII indice il primo giubileo del 1300 - Roma, affresco da San Giovanni in Laterano.

La mattina del 22 febbraio 1300, festività della cattedra di San Pietro, papa Bonifacio VIII, dalla loggia delle benedizioni di San Pietro, adornata da drappi di seta e d’oro, annunciò con grande solennità il giubileo cristiano, assistito dai cardinali e vestito dei sacri paramenti. La proclamazione della bolla Antiquorum habet fida relatio («Esiste un’attendibile asserzione degli antichi che ai visitatori della venerabile basilica del principe degli apostoli nell’Urbe furono concesse grandi remissioni e indulgenze di peccati») era la risposta alla moltitudine dei pellegrini che, radunatasi spontaneamente in Roma sin dal Natale 1299, attendeva un segno dal Papa.
Ma chi era l’uomo che aveva saputo interpretare così compiutamente le inquiete e speranzose domande della folla?
Benedetto Caetani era salito al soglio di Pietro il 24 dicembre 1294, dopo la “grande rinuncia” del suo predecessore Celestino V, il santo eremita, il Papa angelico che tante speranze di rinnovamento aveva suscitato nella Chiesa e che invece, disavvezzo alle pratiche di governo, aveva alla fine procurato delusione e incertezze.
La nuova elezione era alimentata dalla speranza di una guida sicura e decisa. Benedetto, che assumeva la tiara dopo aver percorso una fortunata carriera ecclesiastica, favorita da astuti calcoli e da benevole contingenze della sorte, si dimostrò avveduto ed esperto, capace di una forte visione del ruolo universale della Chiesa romana in un’Europa nella quale le nazioni si stavano prepotentemente affermando.
Uomo tenace, accorto sino ai limiti della spregiudicatezza, giurista esperto capace di sottili distinguo, era riuscito a consolidare una consistente fortuna patrimoniale per sé e per la propria famiglia. Ma restava pur sempre un plebeo agli occhi degli aristocratici Colonna, esponenti di una delle più importanti famiglie romane e implacabili avversari del Caetani. Non erano teneri con lui nemmeno i numerosi avversari europei: «Il Papa non si cura che di tre cose: vivere a lungo, far quattrini e arricchire e innalzare i suoi», aveva polemicamente annotato un ambasciatore aragonese. Gli stessi cardinali, che pure gli riconoscevano competenze giuridiche, grande abilità di governo, risolutezza nel perseguire la difesa della Chiesa romana, lo temevano.
Jean Le Moine, uno di loro, ricorda frasi ingiuriose, uscite dalla bocca del Papa in uno dei suoi incontenibili scatti d’ira, alimentati dalla tempra rude del campagnolo. Connotato da una religiosità colta e perciò restio alla concessione generosa di indulgenze, papa Caetani aveva guardato con sorpresa e inquietudine al fluire di folla in San Pietro e condivideva con la Curia un identico atteggiamento di sospetto e cautela verso le manifestazioni della pietà popolare, spesso pronte a scivolare nelle più diverse forme di eresia. Eppure sin dalla notte di Natale i pellegrini insistevano: «Dacci o Padre Santo la tua benedizione, prima che la morte ci prenda. Sappiamo noi dai nostri avi che chiunque l’anno centesimo visiti i corpi dei Santi Apostoli va libero di colpa e di pena» (Memoriale Guiglielmi Venturae). E il cronista Giovanni Villani: «con ciò fosse cosa che si dicesse per molti anni addietro, ogni centesimo d’anni della natività di Cristo il Papa ch’era in quei tempi facea una grande indulgenza». Pur non avendo ritrovato negli archivi vaticani alcuna testimonianza di precedenti celebrazioni giubilari o di grandi indulgenze connesse al precedente “centesimo anno”, e dopo aver a lungo riflettuto, Bonifacio VIII decise di accogliere l’appassionata e reiterata richiesta della folla.
Le parole del Papa, nell’accurata ed elegante redazione della solenne bolla, seppero incontrare la religiosità popolare degli uomini del Trecento, accogliere le ansie escatologiche che presagivano l’imminente fine del mondo, valorizzare la consuetudine del pellegrinaggio alla ricerca del sacro e delle sue manifestazioni. In un ambiente infuocato di passioni religiose, di aspirazioni francescane alla pace e al perdono, di critiche e di contrasti con la Chiesa istituzionale, troppo permeata da preoccupazioni giuridiche e ingessata nella sua ortodossia, si celebrò il Giubileo. Ciò che colpì, ciò che l’anziano Papa seppe perseguire con grande intuito pastorale e sagacia comunicativa fu la larghezza della concessione (prima di allora l’indulgenza plenaria era concessa solo ai crociati) e la corrispettiva esiguità della richiesta.
Le condizioni per ottenere il grande perdono erano infatti semplici: chiunque, ogni centesimo anno, avesse visitato le tombe degli apostoli Pietro e Paolo per quindici giorni (trenta per i Romani) avrebbe goduto della remissione totale e piena delle pene temporali.
Il giubileo diveniva dunque il segno della grazia di Dio sulla terra e la Chiesa, interprete della coscienza collettiva, apriva le porte del cielo, si poneva come efficace e carismatico ausilio di salvezza.
«E fu la più mirabil cosa che mai si vedesse» (Villani). Incuranti degli ostacoli e della distanza, gli uomini di quel tempo si misero in cammino lungo le antiche vie di pellegrinaggio. Il loro passaggio lasciò traccia negli scritti cronachistici delle diverse città d’Europa: «Era tanta la moltitudine della gente che passava per Siena che non era possibile crederlo. E andavano el marito e la moglie e figliuoli. E lassavano le case serrate e tutti di brigata, per perfetta divozione andavano al detto perdono» (Cronaca senese); «A Roma giunse una tal moltitudine di persone da tutto il mondo che nessuna età dell’uomo ne ricorda una simile» (Annales Austriae). Sebbene l’inverno fosse stato molto rigido e nevoso e le avversità climatiche fossero durate sino al mese d’aprile, nelle cronache di quell’anno abbondano i verbi confluere, properare, currere (confluire, affrettarsi, correre) verso un’unica destinazione: Roma.
Dell’iniziativa di Bonifacio si è tentata una lettura politica: il Papa, giunto all’apice del suo prestigio, attraverso il giubileo avrebbe voluto affermare la pienezza universale del proprio potere. Ma se anche ci fosse stato, il calcolo andò deluso: i potenti d’Europa non si incamminarono verso Roma, non chiesero di incontrare la grazia di Dio nella visita alle basiliche.
Si è anche cercato di dimostrare la convenienza economica dell’operazione. Ma le offerte raccolte nel corso dell’anno, e costituite in gran parte di spiccioli, ammontarono a circa la metà del consueto bilancio di spesa della Camera apostolica; e il Papa non tenne per sé quanto raccolto: impegnò con la consueta oculatezza i capitali raccolti, acquistando terreni a favore della basilica petrina.
Certo, forse nell’iniziativa papale si nascondevano anche calcoli prettamente umani, ma ciò che ne sortì fu cosa ben diversa. Assillato da altri problemi, il pontefice non si interessò più direttamente del giubileo; eppure il continuo affluire a Roma di pellegrini e l’eco che ne derivò furono il segno che il grande anno santo rispose alle profonde, autentiche urgenze di una nuova sensibilità religiosa, alla consapevolezza nuova della necessità di una salvezza individuale prima ancora che collettiva. Ed era stato proprio quel papa, Bonifacio VIII, troppo spesso menzionato solo per il suo impegno politico, a saper interpretare questi nuovi bisogni e a saper rispondere a queste nuove esigenze religiose.

Bibliografia
Una articolata biografia di Benedetto Caetani è disegnata da E. Dupré Theseider, Bonifacio VIII, in “Dizionario biografico degli italiani”, 12, Roma 1970, pp. 146-170.
Sul giubileo di grande attualità è ancora Arsenio Frugoni, Il giubileo di Bonifacio VIII, Roma-Bari 1999 [edizione originaria "Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medioevo e Archivio muratoriano", 62 (1950), pp. 1-121].

da “Il Timone”, n.67, anno IX, novembre 2007, pp. 26-27



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