D. De Mauro richiama l’attenzione sulla qualità dell’alfabetizzazione degli italiani.
R. Il livello di conoscenze linguistiche negli anni Ottanta era sicuramente cresciuto, rispetto alla palude dell’Italia postunitaria, grazie all’espansione del sistema scolastico, ma anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione di massa. È ormai un luogo comune sostenere che l’italiano negli anni Ottanta diventa per la prima volta una lingua nazionale di massa in conseguenza anche del messaggio televisivo.
Però gli studiosi mettono in guardia: attenzione, questa alfabetizzazione può rovesciarsi nel suo contrario se non viene accompagnata a un’educazinoe critica e da una reale capacità di lettura, che la TV da sola non può dare. Occorrevano altre forme di pedagogia collettiva.
D. E invece?
R. È accaduto che una più diffusa pratica della lingua italiana non sia stata accompagnata da quella accresciuta coscienza civile che solo può consentire una reale espansione della conoscenza nei diversi campi del sapere. Gli studiosi lo chiamano «analfabetismo di ritorno»: la gente in teoria sa leggere, ma non capisce ciò che legge, e di conseguenza smette di leggere, e alla fine non sa più leggere. Ed è qui che si spezza il processo «tradizione culturale scritta-mezzi di comunicazione di massa-accresciuta alfabetizzazione», con conseguenze disastrose: l’alfabetizzazione più diffusa, invece di essere uno strumento in più, diventa un ostacolo nel percorso che potrebbe ricondurre a quella tradizione intellettuale da cui era partito il processo.
D. Un’alfabetizzazione solo apparente.
R: Un’educazione così elementare che è facile dimenticarla. Ed essendo limitata all’interpretazione dei segni, rinuncia a scoprirne i significati più profondi. C’è un sacco di gente, in Italia, anche nelle classi alte, che non ha mai letto un solo libro in vita sua.
D. Lo straordinario successo della TV commerciale, e dei suoi programmi più scadenti, può essere interpretato anche con questa scarsa alfabetizzazione degli italiani?
R. Mi pare che cominci a delinearsi in questo modo un circolo poco virtuoso, al quale aggiungerei un elemento: gli stereotipi televisivi attecchiscono con straordinaria facilità nell’immaginario collettivo, con l’effetto di forgiarlo uniformandolo. Certo, questo contribuisce a creare una «civiltà unica mondiale», che senza ombra di dubbio rappresenta il nostro destino. Ci si può chiedere, però, se è proprio necessario che questo avvenga sotto forma di appiattimento mentale generalizzato. Forse in questo senso la «vecchia cultura» ha ancora un compito da svolgere : quello della «contraddizione» che migliora la qualità complessiva del processo.
D. A proposito del falso che sostituisce il vero, è d’accordo con Jean Badrillaud secondo cui la TV uccide la realtà? “Il delitto perfetto” è anche il titolo del suo saggio.
R: Non sarei così categorico. Il mezzo televisivo – questo sì – collabora alla costruzione di un immaginario molto diverso da quello tradizionale, che è parte essenziale della nuova «civiltà montante». Qual era l’immaginario tradizionale? Naturalmente faccio riferimento a quello delle classi dominanti, più facili da ricostruire sulla base della produzione artistica, letteraria e anche filosofica degli ultimi secoli. La mia tesi, come ho più volte ripetuto, è che il suo carattere preminente consista nella valorizzazione assoluta dell’individualità. Questo spiega perché arte, letteratura, musica e filosofia vengono messe ai vertici del sapere umano: l’homo faber, l’uomo creatore, impersona un «tipo» in cui la «differenza» conta di più, molto di più, di ciò che è identico, comune. Al «prototipo», certo, possono seguire delle repliche, delle ripetizioni: è ciò che costituisce le tradizioni. Però quel che «vale» veramente è il primo esemplare, quello da cui ha inizio la catena: in fondo, letteratura, poesia, ecc., non sono che forme di grande artigianato. Al contrario, l’attuale immaginario collettivo predilige modelli seriali e ripetitivi. Ciò che è comune finisce per essere apprezzato più di ciò che è diverso. Ora la TV è soggetto e insieme oggetto (e persino vittima, talvolta) di questo immaginario massificato, nel senso che essa si afferma come potentissimo mezzo di comunicazione solo quando le platee sono pronte a ricevere questo messaggio indifferenziato, alimentandolo in una spirale senza fine. Per tornare a Badrillaud: la TV, secondo me, non uccide la realtà ma la rappresenta così come le grandi masse immaginano che sia.
(Capitolo V, La civiltà “montante”, pag. 102-103)
Asor Rosa