O lo si ama o lo si odia. Una pellicola che non ammette mezze misure. O se ne percepisce, il profumo inteso che emerge della meditazione o se ne resta freddi e annoiati osservatori.
Chiamarlo documentario è assolutamente riduttivo. Una vicenda alla quale aggrapparsi per definirlo un film di fatto non esiste, o meglio, sembra non esserci, perché in realtà è, al di fuori del tempo, la contemplazione della meditazione, è l’uomo che indaga l’assoluto alla ricerca di un suo ruolo nell’universo. Girato nel monastero La Grande Chartreuse, vicino a Grenoble nell’arco di alcuni mesi, durante i quali Philip Gröning ha condiviso per intero la vita dei frati certosini, ha come unico accompagnamento sonoro, oltre la natura, il mormorio della preghiera. Solo ad un monaco, quasi che la pena inflittagli dal destino (Dio?) con la perdita della vista debba essere in qualche modo risarcita, viene permesso di parlare, di divenire portavoce del cammino di intensa spiritualità e di meditazione che la pellicola partecipa. O forse lui ne è l’unico degno per quel surplus di soffrenza che lo rende degno di parlare dall’alto dell’esperienza del dolore e della privazion e pertanto, in una visione cristiana, più vicino a Dio. Un filmato molto lungo che vuole dilatare il tempo così come la meditazione dilata la percezione delle cose. Una meditazione che è disturbata, solo una volta, dall’eccezionalità di un piccolo banale evento – l’arrivo di un novizio – che è sufficiente a scardinare il rigoroso ed inalterato ordine della vita monastica, prima di ritornare a ricongiungersi con il lungo silenzio.
È la celebrazione del cinema e del silenzio. Ridona al cinema il fascino degli esordi, quelli di un'arte muta che doveva – obtorto collo – affidarsi alla mimica e all’immagine per trasmettere tutto quanto successivamente il suono e con esso, il rumore, avrebbe arricchito ma anche disturbato e, talvolta, annientato. Il film è doppiamente provocatorio. Senza dubbio lo è per questo intento di renderci partecipi dell’infinità degli inascoltati suoni e rumori che si nascondono nel silenzio e poi perché, finalmente, dimostra che per calcare i difficili sentieri della meditazione non è necessario andarsene in Tibet, ma è sufficiente fare pochi passi da casa. Un film che in taluni paesi europei ha superato gli incassi di giganti dell’industria cinematografica come Harry Potter 4, dimostrando così quanta attenzione vi sia, nascosta (perché spesso contraria alle leggi del consumismo e quindi sdegnata dai grandi media), verso la meditazione, come se ciò incarnasse la volontà di fermarsi, di riavvolgere un nastro che ha corso troppo velocemente, un nastro del quale se ne sono perse le radici e, con esse, il rapporto con il mondo.
Il tempo, con il ciclo delle stagioni, sembra compiere un giro perpetuo al centro del quale l’uomo e la sua capacità di meditare riescono a trascendere, trasformando la ciclicità del cerchio in una linea retta verso la percezione di un senso infinito che non viene compreso appieno ma intuito e lentamente scoperto. Il monastero induce a ipotizzare una percezione che porti verso Dio, ma che invece, anche in questo senso, rivelando un altro aspetto provocatorio del film, invita forse solo a ritrovar se stessi.
Questo processo quasi riappacificatorio con una universalità dimenticata, in apparente antitesi con il quotidiano che freme nell’epoca dell’esplosione dei social network e della rete tutta, dove esternare è quasi un obbligo e dove il non partecipare inizierà a creare dei “diversi” e dei socialmente disadattati, pone l’attenzione con questo dualismo sul contemporaneo esistenzialismo, ben lontano da quello storicamente riconoscibile in Pascal o in Kierkegaard. Seppur involontariamente, diviene parte integrante del dubbio che identifica l’umanità unitamente al suo compulsivo contrario, ovvero alla frenetica esternazione, apparentemente senza limite né di tempo né di spazio per la quale il destinare ad un ipnotico, virtuale, immenso pubblico i propri pensieri, raccolti in quel gesto del “condividere” diviene simbolo della ricerca della certezza di non “sapersi soli”. Silenzio, natura, tempo, divengono anch’essi ingredienti, perduti e ritrovati, che nel loro trascorrere danno significato al desiderio ed alla necessità di comunicare, colmando quei vuoti che nessun #hastag potrà mai identificare, ovvero la comunione, l’appartenenza ai propri pensieri, al tempo ed al suo scorrere imparziale e costante sino a percepire - per i più fortunati - in sé, ciò che è al di fuori di sé.