Il guazzabuglio plebeo.
Creato il 21 ottobre 2014 da Lostilelibero
La vita è una sorgente di piacere;
ma dove si abbevera anche la plebaglia, là tutte le fonti sono avvelenate.
F. W. Nietzsche
A fronte di una crescente uguaglianza e
sicurezza, la società contemporanea chiede in cambio il sacrificio di ogni
fisiologico principio individuale, sino all’erosione della stessa identità
singolare. Sapere chi sei, senza aver bisogno di conoscerlo dal placet dell’opinione “sociale” (secondo il
rentier Schopenhauer infatti: “ciò che conta è quello che gli altri
pensano di noi”), non è esclusivamente una semplice questione filosofica,
buona per qualche poco pratico acchiappanuvole.
La problematica sarebbe in
realtà molto concreta, a tal punto che, si potrebbe addirittura sospettare, la
progressiva disgregazione dell’identità individuale sia la stessa causa, o se
si preferisce il “florido” humus, su
cui l’intera crisi odierna ha germogliato, e ha fatto poi fiorire i suoi
demenziali frutti avvelenati. Si ha infatti la crescente sensazione che,
tralasciati al loro risentimento sociale gli appelli alla concretezza e al “"tanto per fare”, il vero incipit tragoedia della crisi sia riconducibile
primariamente ad una pigrizia del pensiero. Un pensiero indolenzito dal
benessere, quello che ha concesso stupidamente ogni “cura” della sfera
personale all’economico, trascurando così la pianificazione, seppur ideale, del
proprio futuro, a favore del meccanismo “senza testa” che si qualifica
esclusivamente nella velocità d’esecuzione e nell’asettico profitto dei numeri.
A tal proposito, è forse la prima volta nell’intera storia occidentale che
manca un pensiero che pensi anzitutto sé stesso. La
“massa”, conquista democratica par excellance, e forse anche il più
grandioso prodotto della Rivoluzione industriale, rappresenta probabilmente la principale manifestazione di questa "mancanza di senso", di questo "essere così e così", mediocri liberatisi dalla zavorra del pensiero.
Non è in fondo verosimile che l’incontro tra la “logica” industriale del
profitto e la fisiologica mancanza di spina dorsale di questa “plebe
massificata”, ha prodotto quale dogma a cui volersi assoggettare l’utilità:
unico paradigma in grado di valutare la bontà delle persone, sola “certezza” capace
di misurarne calvinisticamente la personalità (è in fondo il pensiero di
Calvino in salsa Max Weber, quello secondo cui il favore della grazia di Dio si
manifesta anzitutto grazie al successo – alias profitto – incarnato da quello
“spirito del capitalismo” ormai mortalmente instillatosi nella mentalità degli
uomini). In un sistema che richiede la crescente specializzazione
delle qualifiche, infatti, noi non veniamo più identificati in quanto
uomini, ma lo siamo esclusivamente in base all’utilizzo che possiamo avere per
gli altri e viceversa, per dirla col Magris che parafrasa Musil: “l’uomo senza qualità è fatto di
qualità senza l’uomo”.
Tale atteggiamento, per amor di verità,
non è inedito: molti tra i cognomi europei, ed italiani nella fattispecie,
manifestano uno status lavorativo. Si
pensi, ad esempio, ai Fornari, ai Marangoni, ai Fabbri, ecc… Ma la remota esigenza di quel mondo
premoderno, semplice e spesso agricolo, quella necessità di nominare per identificarsi
in quanto persone, oggi non appartiene più alle esigenze dell’uomo “liquido”
contemporaneo.
Laddove infatti l’individuo premoderno
sentiva il bisogno di fornirsi un’identità applicando quest’urgenza alla
primaria attività che finiva, fisiologicamente, per sostanziarne la personalità
e il carattere, oggi, l’uomo contemporaneo viene qualificato dalla propria
professione solo per dimostrare quanto può essere utile per gli altri. (nell’ancien règime non esistevano ascensori
sociali, né tantomeno la vasta gamma di chance
che possiamo vantare oggi, eppure, che l’homo
faber premoderno si staccasse malvolentieri dalla propria “opera”, è
qualcosa più di una macchietta da ridicolizzare. Il prodotto di quell’artigiano
era veramente un prolungamento di sé stesso. Oggi, al contrario, diventa mezzo,
reddito, potere d’acquisto, dimostrazione di “pubblica utilità”. Dal lavoro che
personifica l’individuo a quello che lo spersonifica alienandolo!).
Volgarmente proiettato nel “bene comune”
del “noi”, trova così che il riconoscimento della propria utilità sia l’unico volano
per poter "contare" ancora qualcosa (è strano, talvolta, il potere del logos: "conta" solo ciò che può essere misurato, controllato, giudicato...il resto non esiste. Non conta, appunto). Quell’uomo dimezzato sembra così acquistare
una personalità solo dall’incontro trasversale cogli interessi utilitari della
massa: sente il bisogno di essere mezzo, avverte la necessità che qualcuno lo
utilizzi. E che gli dica: "bravo"!
Oggi infatti, slegato dal suo “saper fare” da sé, da ogni tipo di
padronanza e di autonomia, circonfuso com’è all’interno di un mondo globale senza limite
alcuno (da qui l'incapacità di sviluppare autentici rapporti umani, di farsi realmente apprezzare per ciò che è e che fa),
non sa più cos’è. Ha perduto irrimediabilmente il suo ruolo, fosse anche quello
pratico del “saper fare” qualcosa. E un po’ di tutto, si adegua, anche quando è "specializzato" lo è sempre nella
subordinazione, ché egli dipende da altri gregari suoi pari: svolazza di qua e di là, dal mercato del lavoro al banco del
sentimento ad interesse variabile, senza trovare mai un stabilità
soddisfacente. Egli si manca costantemente! Eppure Nietzsche, lo anticipava
qualche secolo fa: “plebe, vuol dire:
intruglio. Intruglio plebeo: lì é tutto mescolato alla rinfusa, santo e ladrone”.
Senza la massa dei nostri pari siamo
quindi solo anonimi specchi in cui l’altro può riflettere i propri bisogni. Egualmente
inseriti in un nulla che ci sostanzia, abbiamo preferito nasconderci e pascere
nel limbo di una comune appartenenza alla “plebaglia”, anziché riscoprirci
autonomi attori del nostro agire.
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