E’ un classico. Finite le ferie estive, quest’anno per la verità più brevi del solito un po’ per tutti, la situazione politica in Italia torna a surriscaldarsi. I temi del giorno sono la riforma del lavoro e l’eliminazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge num. 300 del 20 maggio 1970).
Ormai il governo Renzi non ha più scusanti e i mille giorni che si è dato per portare a termine le riforme scorrono uno dopo l’altro inesorabili. E’ quindi costretto per forza ad affrontare anche i temi più delicati che sino ad ora ha lasciato decantare. Uno dei più spinosi per la sua stessa maggioranza interna (parliamo del PD) è la riforma del mercato del lavoro. Su questo tema esistono due PD, forse anche tre. Ma Renzi sa benissimo che non può fare a meno di portare avanti questa riforma, perché la situazione italiana è tragica e l’Europa ci chiede a gran voce di cambiare marcia.
Il problema è come cambiare, dopo che la riforma Fornero ha, sembra impossibile, peggiorato ancora di più il quadro legislativo e la crisi economica negli ultimi due anni ha colpito duro soprattutto la fascia d’età giovanile e i cinquantenni rimasti senza lavoro e senza pensione. Una situazione potenzialmente devastante dal punto di vista della tenuta sociale del sistema.
L’idea di Renzi sull’argomento è nota dai tempi della Leopolda e trova sponda nei partiti di centro destra dentro e fuori il governo (NCD e Forza Italia più satelliti), ma è all’antitesi di quella di metà PD e degli altri partiti di sinistra.
Al momento una mediazione sembra impossibile e forse neanche auspicabile perché provocherebbe l’ennesima riforma fatta a metà che non risolverebbe il problema.
Noi ci permettiamo di mettere sul tavolo due o tre considerazioni.
Primo: l’articolo 18. Senza entrare in tecnicismi, ricordiamo che il licenziamento comminato da un datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore incorre in particolari conseguenze qualora il provvedimento manchi di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo o soggettivo. In tali casi si parla di illegittimità del licenziamento e può essere applicato il famoso articolo se l’impresa ha più di 15 dipendenti.
Renzi e il suo governo, con il Jobs Act, sembrano convinti che eliminando questo articolo, il mercato del lavoro in Italia sarà meno ingessato e potrà riprendere a crescere. A parte che l’articolo 18 è già stato fortemente limitato nella sua applicabilità dalla riforma Fornero, non sembra che ciò abbia portato ad un aumento di occupati. E poi l’articolo 18, dalla sua nascita nel 1970, ha trovato applicazione per la metà circa dei lavoratori, visto che l’Italia è il Paese delle piccole e piccolissime imprese, sotto i 15 dipendenti, e pertanto escluse dall’applicazione dell’articolo. Nonostante ciò, l’occupazione in Italia dal 1970 al 1990 è cresciuta e il nostro Paese è diventato tra le 8 nazioni più sviluppate al mondo, con l’articolo 18 in vigore, non senza l’articolo 18.
Non ho mai letto o conosciuto un imprenditore italiano o straniero, che si lamentasse dell’esistenza dell’articolo 18 e che decidesse di non investire in Italia per questo motivo.
Riteniamo invece che l’idea di fondo espressa nell’articolo sia un’idea di civiltà giuridica che pochi Paesi al mondo hanno sviluppato e non a caso essa è presente nell’ordinamento giuridico dell’Italia, patria e culla del diritto romano che ha civilizzato l’intera Europa duemila anni fa.
Secondo: i mali dell’Italia invece sono ben altri e Renzi li conosce bene e dovrebbe affrontarli: la giustizia civile lenta a livelli inverosimili che ci pone agli stessi livelli dei Paesi dell’Africa nera. La burocrazia esagerata che obbliga gli imprenditori a sostenere costi assurdi. Per aprire un’unità produttiva in Italia ci possono volere sino a sei anni contro i dodici mesi del resto d’Europa. La corruzione che si annida nelle lungaggini burocratiche in Italia è praticamente endemica. Il costo dell’energia è più alto di tutti gli altri nostri competitors europei. E si potrebbe continuare (non abbiamo citato per esempio il tema fiscale), ma si capisce bene che già così è quasi un miracolo che esistano ancora imprenditori che hanno la voglia e il desiderio di investire in Italia.
I sindacati, chiamati inevitabilmente in causa quando si attacca l’articolo 18, sicuramente in passato hanno commesso errori, non capendo che il mercato del lavoro stava cambiando, ma è indubbio che non hanno scritto e promulgato le leggi che nel corso degli anni hanno portato alla situazione attuale.
Renzi sbaglia quando li accusa di non tutelare le partite IVA e i lavoratori temporanei e tutte le altre forme di precariato. Il sindacato queste forme di lavoro “anomalo” non le vuole, non le voleva e le ha subite. I veri colpevoli di questa situazione sono i partiti politici che, in piena crisi di valori, dagli anni 90 in avanti si sono piegati ai nuovi poteri forti rappresentati dai grandi gruppi industriali e dalla finanza internazionale che sempre più globalizzati hanno iniziato a chiedere alla politica una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, foriera a sua volta di una riduzione di costi e quindi di un maggior guadagno per loro stessi.
Cosa ci aspetta? Personalmente riteniamo che oggi abbiamo davanti a noi un’opportunità incredibile: ripensare alla concezione del lavoro umano e a quello che esso significa per la vita di ciascuno di noi, lasciando per un attimo da parte i diritti e i doveri, ma riflettendo sul significato della parola lavoro.
“L'UOMO, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all'incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli. E con la parola «lavoro» viene indicata ogni opera compiuta dall'uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l'uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell'universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra, l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l'uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro; solo l'uomo ne è capace e solo l'uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell'uomo e dell'umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura.”
Così inizia l’Enciclica LABOREM EXERCENS scritta nel 1981 da Giovanni Paolo II.
Iniziamo a riflettere su queste parole e magari domani al governo Renzi potremmo inviare un tweet con qualche suggerimento per il Jobs Act.