Il lago di pietra

Creato il 19 febbraio 2016 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Anno 2011. Il fotografo Nick Brandt effettua una spedizione in Tanzania visitando un lago particolare per via dell’altissimo livello di alcalinità – se nel mare i livelli possono variare dai 7 ai 9, qui si arriva agli 11.

Anche se ci troviamo in Tanzania, il nome del lago riporta a un’altra zona del mondo. Natron, infatti, deriva dall’egizio antico ntry, il sale, il carbonato idrato di sodio. Da questo lemma deriva la designazione chimica del sodio (Na), ma anche toponimi quali Wadi El Natrun o valle di Natron che, in Egitto, era il luogo preposto all’estrazione di questa sostanza. Gli Egizi la usavano per diversi scopi: mischiato all’olio, era un ottimo sapone; puro, poteva costituire un efficace sbiancante per i denti; in cucina, poteva essere impiegato per disidratare e conservare i pesci e la carne… Più o meno per gli stessi motivi era utilizzato anche nell’arte in cui gli Egizi eccellevano: la mummificazione dei corpi.

Ed è da questo ultimo dettaglio che capiamo perché il lago Natron in Tanzania sia stato chiamato così. Perché molti animali che vi sostano si trasformano in vere e proprie statue di sale, come la moglie di Lot quando disubbidì a Dio e si voltò indietro per osservare da lontano il destino di Sodoma e Gomorra distrutte dall’acqua e dal fuoco (Genesi, 19:24-26). Curiosamente, a nessuno di quelli che hanno scritto del lavoro di Brandt, è venuta in mente questa immagine. Leggendone, ho trovato invece numerosi richiami allo Stige di Dante, uno dei fiumi danteschi in cui sono immersi gli iracondi e sommersi gli accidiosi. Ci sta, è vero, eppure a me viene in mente anche la moglie di Lot pietrificata o una delle vittime dello sguardo di Medusa.

Sì, perché il lago Natron ha il potere di mummificare, di pietrificare, e di conservare perfettamente le forme di una vita che non è più. Le foto di Nick Brandt, raccolte nel volume Across the Ravaged Land (Nella terra ferita, Contrasto 2013), chiudono una trilogia iniziata con On This Earth e A Shadow Falls, il cui proposito è quello di mostrare come l’uomo si stia scientemente privando di uno dei piaceri più grandi di cui possa godere: la contemplazione della bellezza della natura.

Nella terra ferita è la morte degli animali selvatici, il loro annientamento. Il fenicottero rosa che non è più in grado di spiccare il volo ma che, fattosi sale galleggia nelle acque morte del lago. E nel suo galleggiare sì, una forma di bellezza c’è ancora, ma è una bellezza tragica e disperata perché, sembrano dire le foto, il passo successivo è l’estinzione. Lo scenario immortalato dal fotografo è cupo, immobile, silenzioso, irreale. Le mummie di bufali, aquile, pesci, pipistrelli, uccelli piccoli e grandi, con piume che sono diventate rigide stecche calcificate, fanno la guardia riflettendosi in questa immensa distesa di acque morte oppure appollaiati su rami, tronchi e piccole pietre. Sono morti di morte naturale, sembrerebbe, semplicemente andando a nutrirsi e abbeverarsi in un luogo che è diventato la loro trappola, che forse li ha accecati a tal punto da farli affondare nelle sue acque e da restituirli cadaveri. Brandt li ha recuperati, sistemati, resi disperatamente belli, ancora una volta.

Ed è contemplandoli che aspetto con ansia il suo prossimo libro, in uscita il 1° di marzo e nuovamente focalizzato sull’Africa e su questa idea di un mondo che si sta lentamente estinguendo. Inherit the Dust ricollocherà gli animali nei luoghi in cui vivevano, ma dove ora sorgono città, fabbriche, cave. Collocati in questi panorami di “sviluppo” i pannelli che raffigurano a grandezza naturale elefanti e altri animali racconteranno la storia di quello che gli elefanti sono attualmente, in molti luoghi: fantasmi. Niente di più.

di Silvia Ceriani