Il lato oscuro del miracolo tedesco

Creato il 19 settembre 2013 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

In tedesco si dice Wirtschaftswunder; in italiano si traduce «miracolo economico». È il fenomeno che descrive la rapida ricostruzione e lo sviluppo dell’economia della Germania Ovest nel dopoguerra, nonché l’espressione con cui gli organi d’informazione sono soliti sintetizzare la vitalità dell’apparato produttivo di Berlino, in stridente contrasto con un resto d’Europa tuttora impantanato nella crisi. Il parallelo con gli anni della rinascita appare giustificato, se pensiamo che, fino a dieci anni fa, le finanze tedesche non godevano affatto di buona salute. Nel 2003, Berlino fu la prima in Europa a sforare quel Patto di Stabilità e Crescita da essa fortemente voluto. Inoltre, nel triennio 2002–05, la sua economia è cresciuta in media dello0,37%, e il rapporto debito/PIL è passato dal 60% al 68%. Eppure, la Germania è tornata a esser la locomotiva d’Europa, attraversando gli anni della crisi praticamente indenne.

La ripresa è avvenuta soprattutto grazie alle misure dell’Agenda 2010, un pacchetto di riforme voluto dall’allora Cancelliere, il socialista Gerhard Schröder, il cui nucleo centrale è noto come Hartz IV, dal cognome di Peter Hartz, all’epoca capo del personale dellaVolkswagen, incaricato di presentare proposte per la riduzione della disoccupazione. L’Agenda intendeva modernizzare sia il mercato del lavoro sia lo Stato sociale, e negli effetti pratici si risolveva in una cura da cavallo da propinare al Paese. La quale sarebbe costata la rielezione al suo fautore, ma avrebbe consentito all’apparato produttivo tedesco uno spettacolare recupero di competitività. Questo mentre nel resto d’Europa si dava spazio a politiche demagogiche – come la «legge delle 35 ore» in Francia – sull’onda degli ultimi anni di vacche grasse che precedettero la crisi. Il risultato è che oggi la quota di disoccupati in Germania è del 5,4%, in costante discesa rispetto al 6,7% del 2011 e al 7,5% del 2010, a fronte d’una media europea del 12,2%. Di questo passo, Berlino s’avvia a raggiungere il traguardo della piena occupazione entro il 2015. Ed ecco che orde di disoccupati vi si riversano da ogni angolo del Vecchio Continente, in particolare dalla sua sponda mediterranea. Tantoché, nel marzo 2012, il Premio Nobel per l’economia MichaelSpence sosteneva che gli americani avessero molto «da imparare dalla Germania» in merito alle politiche occupazionali.

Questo è il lato luminoso del «miracolo» tedesco. Sennonché le riforme di Schröder hanno generato anche dei lati oscuri, di cui si parla poco o nulla. Ciò che le statistiche nascondono è che dietro al miracolo occupazionale si cela una forte polarizzazione delle situazioni lavorative, coi precari da una parte e gli assunti con contratto dall’altra, e con scarsissime possibilità di mobilità sociale per i giovani.

Innanzitutto, in Germania non esiste alcun salario minimo, per cui è normale che un lavoratore percepisca un reddito di 2 euro l’ora o perfino di 0,55 centesimi, come segnalato dalla stampa estera già nel 2012. Berlino ha la piú alta quota di lavoratori a basso reddito d’Europa: addirittura il 20% dei lavoratori a tempo pieno, contro il 13,5% in Grecia e l’8% in Italia. In totale, nel 2010, oltre quattro milioni di persone hanno lavorato per meno di 7 euro l’ora. Per scomparire dalle statistiche di disoccupazione, basta che il lavoratore accetti un impiego pagato fino a 165 euro al mese. La riforma Hartz IV ha cancellato milioni di persone dalle liste di disoccupazione per poi farle riapparire nelle liste di «lavoratori poveri» – piú d’un milione e mezzo di persone che si recano almeno settimanalmente alle mense di beneficenza, nonostante abbiano formalmente un lavoro.

Ma perché c’è gente che accetta di lavorare a meno d’un euro l’ora? Perché altrimenti perderebbe i sussidi previsti dallo Hartz IV. Prima della riforma, i disoccupati che durante il lavoro avevano versato i contributi avevano il diritto a un’indennità di disoccupazione (Arbeitslosengeld I ALG I) che durava due – o, in certi casi, tre – anni. I disoccupati di lunga durata che avevano esaurito il diritto all’ALG I potevano poi ricevere l’ALG II, benché piú modesto, oltre a una pubblica assistenza (Sozialhilfe, «aiuto sociale») per le persone con maggiori difficoltà di reinserimento nel mercato del lavoro. Col pacchetto Hartz, la durata dell’ALG I è stata ridotta a un anno soltanto, mentre l’ALG II e la Sozialhilfe sono stati fusi in un unico sussidio. Il sistema ha cosí favorito la proliferazione di lavoretti da meno di 15 ore settimanali e pagati anche meno di 400 euro, limite al di sotto del quale lo Stato non esige il versamento dei contributi previdenziali e sanitari. Ecco spiegata la convenienza per i datori di lavoro, come ricostruito da un rapporto del Comité d’études des relations franco-allemandescomparso nella primavera del 2012.

E si tratta solo d’un primo sguardo s’una realtà scarsamente divulgata, con buona pace della retorica filotedesca.

Altri numeri testimoniano come in Germania vi sia anche una scarsa mobilità sociale. Secondo i più recenti dati OCSE, appena il 20% dei giovani tedeschi raggiunge un livello professionale superiore a quello dei genitori, a fronte d’una media europea praticamente doppia. Tra le contraddizioni del miracolo occupazionale tedesco v’è poi il fatto che, nonostante la disoccupazione diminuisca, il numero di disoccupati cronici – cioè quelli che da più di 24 mesi non lavorano nemmeno per una settimana – negli ultimi anni è praticamente rimasto inalterato: circa tre milioni di persone, su quattro milioni di disoccupati totali. Dilaga poi il precariato: i lavoratori interinali hanno ormai superato quota un milione, praticamente il triplo rispetto al 2007.

La verità è che in Germania i ricchi accrescono il proprio patrimonio privato, mentre i poveri scivolano in una povertà sempre piú pesante, aggravata dalla mancanza di chance. Ma, questo, il governo tedesco non vuol farlo sapere. Nel settembre scorso, Business Insider rivelava il contenuto d’un documento commissionato dal governo tedesco, il «Rapporto sulla povertà» (Lebenslagen in Deutschland – Armuts- und Reichtumsbericht der Bundesregierung, noto – appunto – coll’abbreviazione Armutsbericht), consultabile qui. Preparato e diffuso dal Ministero del Lavoro guidato da Ursula von der Leyen (CDU) in collaborazione con altri dicasteri, esso ci offre la fotografia d’un Paese ricco e allo stesso tempo in fase di sfaldamento sociale. Per la verità, si tratta d’una pubblicazione periodica a cura del Ministero: lo scoop di Business Insider sta nell’averne divulgata la bozza originaria, poi ritoccata dal governo Merkel prima della sua diffusione.

Secondo lo studio, tra il 1992 e il 2012 il patrimonio netto privato delle famiglie tedesche è aumentato da 4.600 a circa 10.000 miliardi d’euro: 250.000 euro a famiglia, in teoria. In pratica, invece, se nel 1998 il 50% piú povero della popolazione tedesca possedeva il 4% della ricchezza, dieci anni dopo è arrivato a possederne appena l’1%, mentre il 10% piú ricco è passato dal 45% al 53%. Nel mezzo sta il 40% «di ceto medio» (la definizione è riduttiva, vista la variegata composizione economico-sociale, ma preferiamo indicarla cosí per ragioni di mera comodità), che nel 2008 possiede il restante 46% del patrimonio privato, in calo rispetto al 48% del 2003 e al 52% del 1998. Non va meglio per quanto riguarda le retribuzioni, separate da una forbice salariale in costante aumento: mentre i salari piú alti sono cresciuti, quelli piú bassi sono crollati. Il divario diventa abissale se consideriamo il solo lavoro dipendente: mentre le retribuzioni reali sono aumentate appena, i profitti delle aziende sono cresciuti del 50%.

Il preoccupante aumento della disuguaglianza dimostra che il modello tedesco è imperfetto, nonostante le statistiche sul rischio di povertà collochino la Germania in una posizione migliore rispetto alla media europea. Un problema d’iniquità sociale esiste, ed è per questo che nello scorso autunno l’Alleanza Umfairteilen (gioco di parole tra il tedesco umverteilen, «ridistribuire», e l’inglese fair, «equo»), un cartello d’associazioni e organizzazioni religiose, politiche, economiche e sindacali, ha lanciato un appello per chiedere di ridurre il crescente divario tra ricchi e poveri attraverso una maggiore tassazione sulla ricchezza privata. Il Parlamento, secondo l’Alleanza, deve porre fine all’ostruzionismo contro l’innalzamento delle aliquote verso i ricchi – esattamente come avviene nel Senato americano, dominato dalla maggioranza Repubblicana, vicina a quell’«1%» contro cui i giovani d’Occupy Wall Streeterano scesi in strada.

La denuncia dell’Umfairteilen non poteva non avere riflessi sul dibattito pubblico, ora che i partiti scaldano i motori in vista dell’imminente campagna elettorale. E qui torniamo al succitato Armutsbericht. La versione definitiva del documento è stata oggetto d’un duro scontro tra il vicecancelliere Philipp Rösler, liberale, e la Ministra del Lavoro von der Leyen. Rösler e il suo partito – tradizionalmente vicino agl’interessi delle fasce di reddito piú alte – non hanno gradito il passaggio del rapporto in cui si parla d’una maggiore tassazione sulla ricchezza. Col pretesto che il rapporto non era «concordato col suo dicastero» e che «non rappresentava l’opinione del governo», il vicecancelliere ha fatto la voce grossa,minacciando di non approvarne la bozza cosí come inizialmente formulata. Quando anche la cancelliera Merkel s’è schierata coll’esponente liberale, la ministra von der Leyen s’è vista costretta a scendere a piú miti consigli.

L’esito del confronto Rösler–von der Leyen è stato, per l’appunto, la pubblicazione d’una variante edulcorata dell’Armutsbericht, in cui alcune espressioni scomode, come rischi socialiricchezza privata ripartita in modo iniquo, sono scomparse. Tantoché, a marzo, quando il rapporto è stato approvato, la stessa stampa tedesca ha apertamente accusato il governo d’aver truccato i dati nella versione definitiva.

Difficile esprimere un giudizio complessivo sulle riforme avviate da Schröder, nell’anno in cui cade il decimo anniversario dell’Agenda 2010. La razionalizzazione della spesa pubblica e la graduale diminuzione della disoccupazione non sembrano tener conto degli elevati costi sociali che la riforma ha riversato sulle fasce meno abbienti. È vero che in Germania il costo della vita è inferiore a quello di Francia e Italia (per inciso, anche grazie alla presenza d’un mercato ad hoc per i sottoccupati). Tuttavia, la fetta di popolazione a rischio di povertà è passata dal 15,2% del 2008 al 15,8% del 2011. E l’esistenza di quei «disoccupati mascherati» che prendono meno d’un euro l’ora o ingrossano le file della Caritas getta un’ombra sinistra sugli altri numeri, quelli piú lusinghieri sulla disoccupazione ai minimi storici, che il governo tedesco tende a esibire con orgoglio.

La vera domanda è: che cosa succederebbe se la Germania interrompesse il proprio ciclo di crescita, fondato principalmente sull’esportazione (poiché la domanda interna si mantiene tradizionalmente bassa)? Il successo del modello tedesco, infatti, dipende fin troppo dalla salute dei mercati esteri – e in particolare di quelli europei. La Cina non potrà mai sostituire il Vecchio Continente in cima alle destinazioni del made in Germany: Pechino assorbe appena il 15% dell’esportazioni tedesche, mentre il resto dell’UE ne riceve oltre il 40%. Essendo l’Europa alle prese con la trappola dell’«austerità», le merci tedesche tendono sempre piú a rimanere sugli scaffali. Già nel medio termine, un’eventuale flessione del saldo commerciale – coi suoi inevitabili riflessi sul piano occupazionale – potrebbe metter a nudo le contraddizioni del tanto decantato miracolo tedesco, squarciando cosí il velo s’un inquietante scenario che le statistiche del governo hanno fin qui occultato.

* Articolo originariamente comparso su The Fielder


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