Sono decenni che i futurologi, ed in genere gli studiosi del mercato del lavoro, dibattono accanitamente sul tema della “fine del lavoro”. Nel corso della storia, ad ogni nuova rivoluzione tecnologica – dall’aratro al computer – si è sempre paventato un forte calo dell’occupazione. Puntualmente, il lavoro non è finito: si è semplicemente spostato sul settore economico emergente. I contadini in esubero, determinati dalla meccanizzazione dell’agricoltura, sono diventati operai; gli operai, resi inutili dall’automazione delle fabbriche, si sono progressivamente trasformati in impiegati dei servizi. Ad ogni settore industriale o dei servizi che moriva, sembrava dovesse sempre sostituirsi una nuova frontiera occupazionale che assorbiva quasi totalmente la massa lavoro disponibile. Anzi, nel processo di traslazione, ad ogni passaggio, il lavoro perdeva sempre più la sua connotazione di fatica, per assumere tempi e modalità sempre più favorevoli alla condizione umana del lavoratore. Così è stato per qualche secolo, ma ora pare essersi rotta – forse definitivamente – quella dinamica positiva. La disoccupazione giovanile in tutto il mondo – esclusi i paesi emergenti – è ora giunta a livelli allarmanti (anche il 50% in Campania). Ma quel che è peggio, ed è questa la poco positiva novità, presto il fenomeno riguarderà anche molti degli attuali occupati, soprattutto i cinquantenni, che per la perversa ed iniqua situazione di crisi mondiale – a cui si è aggiunta il sostanzioso allontanamento dell’età pensionabile – vedono fortemente a rischio il loro posto di lavoro.
Basta leggere i quotidiani nazionali e locali soprattutto (vedi vertenze AMTS, CSTP, SITA http://rs.enteautonomovolturno.it/rsarc/EAV_20120209.pdf ) per constatare che non solo di sacrifici retributivi sarà fatto l’immediato futuro dei lavoratori del TPL nella nostra regione. L’Accordo del 16 dicembre 2011 – integrato dall’intesa del 17 gennaio 2012 - contiene in sé, seppure come mere possibilità, tutti gli strumenti per costruire un progressivo processo che mira, come fine ultimo, seppure non dichiarato, ad una drastica riduzione dei livelli occupazionali. Certo, ci si arriverà per gradi, ma quello che conta è che il processo è già partito, e non si vede come, e soprattutto da chi, possa essere se non fermato, quanto meno, rallentato. Il famigerato accordo inanella in rapida successione strumenti come la mobilità aziendale/endosettoriale e, soprattutto, il contratto di solidarietà, su cui sono già sono state appostate risorse per 8 milioni di euro. Per quanto riguarda i 6 milioni destinati a favorire gli esodi, sappiamo che buona parte della somma è già stata impegnata per quelli già realizzati a partire da agosto 2011; è previsto anche 1 milione per la formazione con finalità riqualificanti, peraltro, resa obbligatoria dal contratto di solidarietà stesso.
Il contratto di solidarietà, reso indispensabile dalla presenza di esuberi (soprattutto nell’ambito impiegatizio) presto verrà reso pubblico da parte di EAV, ma, paradossalmente, costituisce il male minore. Infatti, la riduzione di ore pro capite probabilmente non sarà rilevante in termini economici, visto che l’apposita quota del fondo regionale dovrebbe lenire i sacrifici retributivi per i lavoratori. Il vero problema risiede, invece, nell’applicazione pratica dello stesso, visto che presumo ci sia ancora indecisione se includere nel calcolo delle risorse in esubero i quadri/funzionari. Problema non da poco, capirete. Si tratta di una decisione che in ogni caso avrà delle conseguenze difficili da gestire. Includere, o meno, il middle management fra gli “esuberanti” crea le pre condizioni per un caos organizzativo, stante la teorica natura di risorse che, all’interno delle organizzazioni, rappresentano sempre più un ruolo chiave, in quanto dovrebbero garantire la necessaria continuità rispetto alla cultura aziendale, alla guida delle persone, al presidio dei meccanismi e delle procedure interne. Ma quale sarebbe il clima complessivo da gestire se si decidesse per una loro esclusione dal contratto di solidarietà? Difficile prevederlo, ma sicuramente non è paranoia immaginare un ulteriore inasprimento delle dinamiche interpersonali.
Nonostante, peraltro, la quasi certa applicazione del contratto di solidarietà, la situazione economico-finanziaria di EAV – e di tutto il comparto TPL della Campania – non avrà un decisivo scarto verso l’uscita da una crisi strutturale, non già congiunturale, come qualche anima bella vuol far credere. I problemi restano tutti, semmai vengono solo benignamente procrastinati, confidando in un improbabile cambiamento del trend generale. Ecco, allora, che parlare di “fine del lavoro” non è più solo argomento per indaffarati futurologi. Diventa, sempre più purtroppo, una condizione con cui anche attempati cinquantenni, avvezzi al tanto vituperato “posto fisso”, dovranno nella fase finale della propria esperienza, lavorativa ed umana, fare i conti. Sappiamo tutti, inutile negarlo, che buona parte dell’occupazione nelle aziende pubbliche, per anni, è stata solo una forma mascherata di assistenzialismo paternalistico, reso possibile da un debito pubblico fuori controllo, che sta scaricando ora su tutti noi il peso di uno scellerato ed insostenibile patto sociale. Tutti complici, purtroppo, e tutti in piccola parte fruitori di un sistema che ci ha portato al collasso odierno. Ma, come sempre, chi ne pagherà più cocentemente il prezzo saranno gli ampi strati di piccola borghesia impiegatizia di cui anche noi lavoratori del TPL facciamo parte. Eravamo, ma non lo siamo più da qualche anno, l’aristocrazia economica del proletariato operaio, da cui stupidamente avevamo pensato di esserci affrancati, per assurgere al rango di middle class di un paese falsamente credutosi ricco. I ricchi, quelli veri, continueranno a vivere le loro vite piene di agi e comodità, spesso inutili e dannose. A noi lavoratori del TPL toccherà chinare la schiena, e per provare a tenerci un “posto”, non più fisso, ingoieremo non solo la perdita di piccoli privilegi, duramente conquistati, ma anche qualsiasi limitazione di diritti, che credevamo indisponibili.
Nella società in cui viviamo, cosiddetta post moderna, il lavoro, come riferimento esistenziale insopprimibile per la vita degli individui, appare travolto dai nuovi termini delle lotte di classe, in una società sempre più basata sull’iniqua condizione in cui il 10% della popolazione detiene il 90% delle ricchezze. L’età industriale, con la sua capacità di crescita economica, ma anche civile, aveva determinato un equilibrio tra benessere, coesione sociale, libertà politica, non privo di contraddizioni e di promesse mancate, ma che attraverso lo stato sociale aveva consentito di realizzare la quadratura del cerchio, decisamente accettabile in termini di liberazione dalla povertà e di costruzione di tutele fondamentali per la vita personale e collettiva.
Il lavoro, il lavoro subordinato organizzato, è stato un attore di primo piano di questo compromesso, per il contributo dato alla coesione sociale, alla promozione del benessere, attraverso una distribuzione delle risorse più attenta alla giustizia sociale. Il lavoro, per ognuno di noi resta, insieme al ruolo sempre più svalutato della famiglia, luogo di prova di sé, occasione di appartenenza, spesso di vera e propria ricerca dell’identità personale. Una realtà occupazionale che si riduce e si fa più incerta, che promette meno di ieri, è una realtà tra i giovani nei quali, però, crea anche risentimento, se non rabbia, nei confronti delle generazioni precedenti. Ora, però, quei padri e quei nonni, considerati finora dei privilegiati, rischiano di diventare vittime essi stessi del cancro che hanno, inconsapevolmente, alimentato a partire dagli anni ’80. Il contratto sociale che teneva insieme giovani e maturi/anziani è stato disdetto per insostenibilità economica e presto tutti saranno nella stessa barca che affonda lentamente ma inesorabilmente.
Ciro Pastore – Il Signore degli Agnelli